Sommario
La Beirut che vediamo oggi è completamente diversa da quella di inizio Duemila.
Benché la capitale e tutto il Libano siano seduti su un vulcano geopolitico sempre pronto a esplodere, da alcuni anni la relativa calma dopo il ritiro di siriani e israeliani e il costante afflusso di ingenti capitali, attirati da una legge bancaria molto comprensiva, hanno favorito il ritorno alla normalità.
Oggi, questo grande centro del Medio Oriente ha lentamente riacquistato il fascino di un tempo.
Il Museo archeologico di Beirut
Il Museo Nazionale (archeologico) è un po’ il simbolo della rinascita, alla quale abbiamo contribuito anche noi italiani: dei tre piani, quello sotterraneo è stato curato e finanziato dal nostro Paese.
Il resto di ciò che vediamo è frutto non solo di una paziente e dolorosa ricostruzione, ben documentata da un filmato da vedere prima di entrare, ma anche di una geniale e fortunata opera di protezione, realizzata incapsulando in armature di cemento armato i reperti impossibili da trasferire.
Il problema fu che, per i decenni della guerra civile che a fasi alterne ha tormentato il Libano fra il 1975 e il 2005, il Museo si è trovato sulla famigerata green line, cioè la striscia di passaggio fra la zona “cristiana” e quella “musulmana” della città, restando esposto dunque a tutti i pericoli immaginabili.
Il centro urbano risorto dalle ceneri
Passeggiare per il centro di Beirut ricostruito fa capire perché il coacervo di religioni, popolazioni e idee sia così complicato da gestire, in tempi di crisi, e così unico e affascinante in tempi di crescita.
Affianco alla moschea c’è la cattedrale cristiano-maronita di San Giorgio, e a poche decine di metri la cattedrale greco-ortodossa sempre dedicata a San Giorgio.
Fra esse, come a Roma, i nuovi scavi della città imperiale romana. Poco oltre, il bel Souk, ricostruito dall’architetto spagnolo Rafael Moneo, con un progetto che incrocia la tradizionale struttura dei mercati coperti mediorientali e le caratteristiche dei mall moderni.
I lavori, quasi completati, hanno per ora lasciato intatto un palazzo semidistrutto dalla guerra, che adesso ospita, come altri in città, mostre temporanee.
Il mercato contadino di Beirut
Il mercato contadino di Beirut, Souk el Tayeb, che si tiene il sabato mattina davanti al museo, è particolarmente importante sul piano socioeconomico. Mette infatti fianco a fianco le varie componenti della popolazione econsente a piccole imprese contadine di trovare uno sbocco sul mercato (www.soukeltayeb.com ).
L’idea è di un personaggio geniale, Kamal Mouzawak, una sorta di incrocio fra Carlo Petrini e Massimo Bottura in salsa libanese, creatore anche della catena di ristorazione sociale ”Tawlet”.
La Corniche sul mare
Tra gli altri aspetti di Beirut, tutti evidenziati sulle guide, spiccano:
- il lungomare (la Corniche) con i suoi “faraglioni” e i grattacieli di lusso affiancati a quelli vuoti dopo la guerra
- gli edifici delle archistar come Herzog-De Meuron
- il Museo della città che Renzo Piano sta realizzando fra il Souk e la Piazza dei Martiri.
Ma quello che è difficile cogliere senza metter piede nelle strade, teatro per tanti anni di attentati ed esplosioni, è proprio il dramma di una città che negli ultimi decenni è stata distrutta e ricostruita più volte, come forse nessun’altra in tempi recenti.
Risalendo verso nord sulla costa
Il percorso lungo la costa libanese a nord della capitale prevede due fermate obbligatorie:
- le spettacolari grotte di Jeita
- la grande e moderna chiesa cristiano-maronita di Nostra Signora del Libano ad Harissa, sopra Jounieh.
Le grotte sono incredibilmente belle, pure per noi italiani che ne abbiamo tante e molto affascinanti.
La visita è movimentata, perché si prendono vari mezzi, dalla cabinovia alla barca, e anche senza essere speleologi il posto merita assolutamente il tour.
Lo stesso impiego di mezzi diversi – dalla funicolare alla funivia – vale per la salita a quasi settecento metri dal golfo di Jounieh ad Harissa. Qui ha sede la grande statua di Nostra Signora del Libano e l’omonima interessante cattedrale maronita, costruita pochi anni fa a forma di nave.
La chiesa domina il golfo, bello, ma ormai completamente coperto di edifici che furono usati dagli abitanti di Beirut come case relativamente più sicure, durante i lunghi anni della guerra civile.
Nella chiesa, se vi capiterà di entrare durante una funzione, avrete la strana esperienza di sentire la messa in arabo, una lingua da noi istintivamente ed erroneamente associata alla religione islamica. E’ uno dei tanti paradossi del Libano!
Byblos e la “dolce vita”
Byblos è un simbolo dell’antica civiltà fenicia, così come della scrittura. La località costiera, situata a una quarantina di chilometri a nord di Beirut, prende il nome dai papiri (per secoli il più importante “supporto” della scrittura: byblos=papiro in greco), che dall’Egitto raggiungevano il porto fenicio e da lì erano commercializzati in tutto il Mediterraneo.
Il legame con la scrittura è doppio: sembra che proprio a Byblos sia nato il primo alfabeto fonetico, cioè la versione semplificata dei complessi geroglifici egiziani.
Dall’alfabeto fenicio a quello che sto usando adesso il passo è stato, tutto sommato, breve, e il merito è tutto di questo antico popolo.
A Byblos adesso si va soprattutto per la grande area archeologica che riassume in pochi ettari settemila anni di storia. Ma questa è stata – soprattutto negli anni Sessanta, prima della guerra civile – una delle località balneari più alla moda del Mediterraneo.
Per rendersene conto basta andare nel mitico bar ristorante aperto da Pepè Abed nel porticciolo dei pescatori. Lui è morto da una dozzina d’anni, ma suo figlio mantiene vivo sia il museo, pieno dei ritrovamenti archeologici fatti dal padre nei fondali, sia il locale, tappezzato di foto in bianco e nero di celebrità ospitate ai suoi tavoli.
Pensate che anche questo piccolo museo privato è sotto l’egida dell’Unesco, che dal 1984 ha inserito Byblos fra i siti considerati Patrimonio dell’Umanità.
Tripoli, la città “una e trina”
Ultima tappa sulla costa nord, la città di Tripoli.
Fin dal suo nome denuncia il suo essere un coacervo di diverse componenti (in origine tre colonie fondate da diverse cittadine fenicie).
Sulla città domina l’imponente Cittadella, un grande castello sede anche di un nuovissimo museo storico-archeologico realizzato dalla cooperazione francese.
Nella parte bassa, un vivace souk con moschee, madrasse, hammām e caravanserragli.
Al termine della visita si lascia la costa per salire verso l’interno, dove spicca la catena del Monte Libano.
I Maroniti del Monte Libano
Il Libano è costituito da due zone di pianura alternate a due catene montuose: in totale quattro strisce che lo attraversano da nord a sud.
Della prima zona pianeggiante, quella sulla costa, abbiamo parlato.
Della seconda zona pianeggiante, la Valle della Bekaa, parleremo la prossima volta.
Adesso ripercorriamo la catena del Mount Lebanon o Monte Libano, un luogo importante per la storia di questo paese. Ad esso, infatti, sono legate due correnti religiose molto originali: i Maroniti nell’ambito cristiano e i Drusi sul versante musulmano.
I primi cristiani devoti a San Marone arrivarono su queste alture come profughi dalla Siria, alla fine dell’ottavo secolo. Si insediarono nelle zone più impervie della Valle di Kadisha (la “Valle sacra”), al seguito di monaci eremiti che ancor oggi coltivano la loro fede nell’isolamento.
La comunità divenne più folta e sempre più forte economicamente nei secoli successivi, fino al periodo delle Crociate, durante le quali fu un potente alleato delle armate cristiane insediate nel paese.
Alla nascita del Libano moderno, nel 1943, i maroniti erano la comunità di maggioranza relativa, e ottennero dall’originale Costituzione, creata per gestire questa non facile convivenza, il diritto di esprimere il Presidente della Repubblica.
Dal punto di vista religioso, sono in comunione con il Pontefice, ma sono guidati da un Patriarca, eletto dal Sinodo dei vescovi che rappresentano le comunità del Libano e di altri 15 paesi.
Molto ben conservato è il Monastero di Sant’Antonio, con un piccolo museo e una vista sulle foreste che per secoli hanno dato rifugio a questa comunità.
All’ombra dei cedri del Libano
Adiacente alla valle di Kadisha è uno dei “santuari” dove – sotto la protezione dell’UNESCO – si tenta di mantenere in vita ciò che resta degli alberi che, non a caso, sono al centro della bandiera libanese. Si tratta dei mitici cedri del Libano, che nel corso dei millenni sono stati vittima delle loro caratteristiche eccezionali.
Decimati a beneficio dei cantieri navali di tutto il Mediterraneo antico, ne sono rimasti pochissimi. Per piantarne di nuovi si ricorre a formule tipo “adotta un cedro”, anche se per raggiungere i 40 e perfino 50 o 60 metri di altezza la pianta impiega una buona parte della sua vita lunghissima, calcolata addirittura in millenni.
I Drusi del Monte Libano
La zona sud della catena del Mount Lebanon è lo Shuf, il bastione della comunità drusa, che vi arrivò, come i Maroniti, per sfuggire alla persecuzione.
Nati nell’ambito degli Sciiti, i Drusi sono considerati dagli altri musulmani non solo molto chiusi (non vi si entra per conversione, ma solo in quanto figli di genitori drusi), ma quasi eretici perché il loro credo è piuttosto eclettico.
I Drusi infatti credono nella reincarnazione, non festeggiano il ramadan e non hanno moschee ma semplici luoghi di meditazione detti khalwa.
Due località dello Shuf sono particolarmente interessanti: molto piacevole è l’atmosfera di Dayr al-Qamar (che vuol dire “Monastero della Luna”). Qui, ancor oggi, convivono moschee e khalwa, chiese maronite e cattoliche melchite. Tutto questo nonostante i ripetuti e violenti scontri, negli ultimi 150 anni, fra Drusi e Maroniti.
Un vero capolavoro si trova poi nel capoluogo Beiteddine, che vuol dire “Casa della religione”. Circa due secoli fa l’emiro cristiano Bashir Shihab vi costruì un enorme e bellissimo palazzo, per fortuna in gran parte visitabile anche se adesso è la residenza estiva del Presidente libanese.
Sale meravigliosamente decorate, cortili, hammam e una pregevole e ampia raccolta di mosaici imperiali e bizantini sono il motivo della sua fama, ampiamente meritata.
Una cucina salutare e saporita
Della cucina libanese non si può che parlar bene. E’ saporita, salutare (non mancano mai legumi, verdure e spezie, usate per insaporire al posto del sale) e abbastanza varia, anche se, in confronto a quella italiana, risulta un po’ monotona dopo qualche giorno.
Ecco i suoi cavalli di battaglia:
- il gran numero di antipasti che trovate automaticamente su ogni tavola. Tra questi, insalate, hummus (crema di ceci e sesamo), polpettine di varia natura e verdure cotte.
- Come secondi troviamo, in base alla località, carne di agnello, pollo o manzo, ma anche pesce, ottimo se insaporito col sommacco (una spezia dal sapore agrumato che si trova anche in Sicilia, ma qui è giustamente onnipresente col nome di sumac).
- Infine, i classici dolci del sud del Mediterraneo e in generale di quello che una volta era l’impero ottomano, a base di miele, come la baklava.