Sommario
La sindrome di Stoccolma è un termine molto suggestivo per definire il legame, un po’ paradossale, che a volte si instaura in un sequestro di persona tra vittima e rapitore. Però, secondo la letteratura scientifica, è una condizione psicologica che si verifica piuttosto raramente. Infatti, non è inserita in nessun sistema internazionale di classificazione psichiatrica.
Si tratta comunque di meccanismi di difesa inconsapevoli, non di una libera scelta, che permettono al soggetto di superare situazioni di fortissimo stress.
Tuttavia, le cause della sindrome di Stoccolma non sono ancora note, ma alcuni studi hanno rilevato certi aspetti comuni nel comportamento dei sequestrati: provare sentimenti positivi verso il rapitore; rifiutarsi di scappare, anche avendone la possibilità; rifiutarsi di collaborare con la polizia; rifiutarsi di testimoniare contro il sequestratore.
Poiché non rientra tra le malattie psichiatriche, non ci sono cure o terapie specifiche.
Sindrome di Stoccolma: che cos’è
La sindrome di Stoccolma è definibile come una condizione psicologica che porta a instaurare rapporti affettivi tra le vittime di un sequestro e i loro rapitori. Si manifesta, cioè, quando una persona, trattenuta contro la sua volontà, inizia a provare sentimenti positivi e perfino affettivi verso i propri sequestratori. Però, sembra essere una risposta automatica e inconscia al trauma del rapimento, non un comportamento deliberato e consapevole.
Si tratta di una condizione non inserita in nessuna classificazione psichiatrica, né in alcun manuale clinico (come il DSM e l’ICD), tuttavia rappresenta una particolare tipologia di legame traumatico, nel quale una persona ricopre una posizione di potere rispetto a un’altra, che diviene vittima di atteggiamenti violenti sia fisici che psicologici.
Un meccanismo di sopravvivenza
Nelle situazioni di pericolo e di terrore, le persone spesso tendono a stabilire relazioni emotive con i propri aguzzini, come meccanismo di difesa e di sopravvivenza. Nel caso di un sequestro, se il rapitore mantiene in vita gli ostaggi, la tendenza della vittima è pensare che essere gentili e comprensivi possa aumentare le possibilità di sopravvivenza.
Quando una vittima sente che la propria vita dipende totalmente da un’altra persona, tende a sviluppare un meccanismo psicologico di attaccamento, nella speranza di evitare la morte. Quindi, è una modalità di sopravvivenza messa in atto dal nostro cervello per sopportare una situazione traumatica e spaventosa.
Qualcosa di analogo accade anche alle vittime dei rapporti disfunzionali: i partner di compagni violenti, sia fisicamente che psicologicamente, spesso, infatti, si rifiutano di denunciare il proprio persecutore.
Sindrome di Stoccolma “inversa”
Sono documentati anche casi di sindrome di Stoccolma inversa, in cui è il sequestratore a legarsi emotivamente al prigioniero, risparmiandogli sofferenze e lasciandolo in vita. L’unica condizione imprescindibile è che l’aguzzino non abbia una personalità antisociale. Infatti, un sequestratore di quel tipo non prova nessun senso di colpa ed è pronto a uccidere i propri prigionieri se ciò rientra nei suoi interessi.
È il cinema ad aver raccontato per la prima volta una situazione di sindrome “inversa”.
Sindrome di Stoccolma: come si sviluppa
La sindrome di Stoccolma si può sviluppare in particolari condizioni di stress:
- Essere in pericolo di vita.
- Essere vittima di un sequestro e percepire anche minimi gesti di gentilezza da parte dell’aguzzino.
- Nessuna prospettiva di salvezza.
- Nessuna via di fuga.
Questa condizione è caratterizzata da tre fasi:
- Sentimenti positivi degli ostaggi verso i loro sequestratori.
- Sentimenti negativi degli ostaggi contro le forze dell’ordine.
- Ricambio (o messa in scena) dei sentimenti positivi da parte dei sequestratori nei confronti dei prigionieri.
Infatti, il legame affettivo patologico che si manifesta in questa sindrome, rappresenta una risposta di difesa inconscia al trauma, non una scelta libera e razionale. È una strategia per tentare di salvare la propria vita.
La privazione violenta della libertà e la sottomissione fanno scaturire meccanismi di identificazione con l’aggressore e di regressione. I primi sono un tentativo di evitare le reazioni negative del carnefice, mentre i secondi sono strettamente legati allo stato di assoggettamento. Infatti, la vittima dipende completamente dal rapitore, anche nei bisogni primari come cibo e acqua. Quindi, cerca di suscitare pietà e compassione.
Cosa dice la psicologia
Dai pochi studi effettuati, emerge che la sindrome di Stoccolma è un disturbo strettamente collegato al modo in cui è trattato l’ostaggio, alla durata del sequestro e all’età della vittima:
- Meno abusi, maggiori possibilità di stabilire rapporti positivi con il rapitore.
- Maggiore è il tempo, più aumenta l’attaccamento al proprio aguzzino.
- L’età è collegata allo sviluppo della personalità della vittima. Nei bambini e negli adolescenti, infatti, la sindrome si manifesta più facilmente. I soggetti molto giovani tendono a sostituire le figure genitoriali con il rapitore, convincendosi di essere stati abbandonati dalla famiglia.
Sebbene il legame affettivo bidirezionale tra vittima e aguzzino appare paradossale, si può comunque spiegare. In situazioni di grave stress, le persone tendono a stabilire relazioni umane per difesa verso l’esterno.
Un rapitore che non maltratta la vittima, ma ne condivide le ansie e le paure, si trasforma in alleato.
La sindrome è piuttosto rara, anche perché per manifestarsi devono essere presenti tutti i presupposti descritti. Infatti, spesso, le personalità della vittima e dell’aggressore non sono compatibili, pertanto non interagiscono positivamente e gli eventi si evolvono verso diversi scenari.
Ciò che sorprende sono gli effetti della sindrome anche dopo il rilascio dell’ostaggio o la sua liberazione. Una volta spezzato il legame vittima/carnefice, inoltre, possono esservi delle recidive.
I ricercatori, comunque, tendono a considerarla una condizione psicopatologica che si manifesta in soggetti “predisposti”, con personalità alterata (debole, fragile, dipendente o altro). Ma anche una condizione che necessita dell’“incontro” emozionale con il sequestratore.
Sindrome di Stoccolma: casi noti
1 – Elisabeth Smart
Fu rapita nel 2002, a 14 anni, da una specie di predicatore religioso e da sua moglie, mentre dormiva nella sua casa di Salt Lake City. Per mesi subì ogni tipo di abuso: violentata, legata a un albero come un animale, costretta a mangiare spazzatura e a dormire tra i suoi escrementi.
Inoltre, durante la sua prigionia fu anche costretta a bere alcolici e a guardare la coppia fare sesso, nonché film pornografici. Nonostante avesse la possibilità di muoversi, non tentò mai la fuga. Successivamente, dichiarò che la sua fu una strategia per assecondare i due mostri, sperando di salvarsi.
2 – Giovanna Amati
Figlia di un industriale, fu rapita nel 1978, a 18 anni, da Daniel Nieto e liberata dopo circa due mesi. Con il pagamento del riscatto, la ragazza tornò a casa. Ma tra i due era nato l’amore e continuarono a sentirsi clandestinamente. L’uomo le promise che si sarebbero rivisti e organizzò un appuntamento a Roma, in via Veneto, presentandosi con un mazzo di rose. Ad attenderlo però trovò la polizia. La stampa dell’epoca riferisce che la ragazza, alla vista dell’uomo catturato dalle forze dell’ordine, scoppiò in lacrime, urlando di lasciarlo libero, perché non aveva fatto nulla di male. Il rapitore condannato a 18 anni di carcere, evase più di una volta, per essere riacciuffato definitivamente nel 2010.
3 – Natascha Kampusch
Sequestrata nel 1998 a Vienna, all’età di 10 anni, fu tenuta segregata in un garage per 8 anni. Il suo aguzzino le cambiò nome e la trattò come una vera schiava personale. Decideva quando poteva dormire, mangiare o digiunare, regolava la temperatura della minuscola stanzetta ricavata nel garage, la picchiava senza motivo e la violentava. La ragazza racconta di averlo ringraziato per ogni piccola concessione e di essersi sottomessa per sopravvivere.
Dopo alcuni mesi, il suo aguzzino le concesse di passare un po’ di tempo nella casa in cui viveva, lasciandola però a dormire nel garage. Al suo diciottesimo compleanno, le concesse di uscire di casa, minacciandola di ucciderla se avesse tentato la fuga. Ma nel 2006 la ragazza riuscì a scappare. L’uomo tentò di rincorrerla, ma poi, sapendo comunque di essere un ricercato, si suicidò buttandosi sotto un treno in corsa. Secondo quanto riportato dalla stampa, una volta liberata e appresa la notizia della morte del suo rapitore, la giovane avrebbe pianto e pregato per lui.
4 – Gianni Ferrara
Rapito a 8 anni a Caracas, in Venezuela, nel 1998, dopo più di due mesi fu liberato con il pagamento del riscatto. Durante il sequestro si affezionò ai suoi rapitori e le cronache raccontano che quando fu liberato inveì contro la polizia e trattò con freddezza i suoi genitori.
5 – Augusto De Megni
Rapito nel 1990, all’età di 10 anni, fu tenuto prigioniero dall’anonima Sarda per 110 giorni. Liberato dai NOCS, in un’intervista successiva, rievocando quei giorni, raccontò che i rapitori lo istigavano contro la sua famiglia. Essendo solo un bambino e quindi facilmente raggirabile, Augusto rivelò anche che pendeva letteralmente dalle loro labbra e quasi si sentiva parte della banda.
6 – Shawn Hornbeck
Scomparso a 11 anni nel 2002, a pochi passi da casa, nel Missouri, fu ritrovato per puro caso nel 2007, durante le ricerche di un altro bambino scomparso. Dopo averlo violentato, il rapitore decise di ucciderlo. Lo portò fuori città, ma mentre lo stava strangolando, Shawn lo pregò di non ucciderlo, promettendo di fare qualunque cosa. L’aguzzino quindi scelse di tenerlo con sé, come fosse suo figlio. Lo iscrisse alla scuola, gli permetteva di frequentare gli amici o di andare in bicicletta. Il giovane visse per 4 anni con il rapitore e i vicini di casa raccontarono di averlo visto più volte giocare nel giardino da solo. Shawn aveva anche un cellulare, navigava su internet e aveva visto in televisione gli appelli dei genitori.
Sindrome di Stoccolma: sintomi
Nonostante non sia corretto parlare di sintomi veri e propri per la sindrome di Stoccolma, una condizione riconosciuta dalla comunità scientifica, ci sono, tuttavia degli indicatori che devono verificarsi contemporaneamente.
Percezione di minaccia fisica o psicologica
Le vittime della sindrome di Stoccolma percepiscono una minaccia fisica o psicologica e sono sicure che il rapitore metterà in pratica le sue intimidazioni. L’obiettivo del carceriere è dunque quello di convincere la vittima che le continue minacce di violenza sono realistiche. La paura comporta una regressione della vittima verso la sottomissione alle regole imposte.
Cenni di gentilezza da parte del rapitore
Piccoli atti di cortesia, come ricevere del cibo o dell’acqua, stimolano un primordiale senso di gratitudine nei confronti del proprio aguzzino.
È una tattica manipolatoria messa in atto dal carnefice per far credere alla vittima che si sta prendendo cura di lei, quindi è capace anche di azioni amichevoli.
Questa ambiguità porta l’ostaggio a credere che la situazione non sia così irrimediabile. Anche la mancanza o la riduzione dell’abuso sono vissute dalle vittime come gesti di clemenza e di buon cuore.
Per ottenere questo, gli abusatori possono condividere con le vittime un momento di intimità emotiva, raccontando una loro difficoltà o un trauma vissuto quando erano piccoli. In questo modo le vittime saranno portate a empatizzare e a umanizzare la figura del rapitore per il suo triste passato.
Ciò comporterà una distorsione di quello che sta realmente accadendo: l’abuso psicologico o fisico nei confronti della vittima, che però tenderà ora a giustificare il proprio carnefice. Nello stesso tempo, la mancanza di violenza diventa un segno di disponibilità: il rapitore potrebbe, ma non mette in atto le minacce. Questo comportamento è interpretato dalle vittime come un segnale di accudimento e di compassione.
È una dinamica emotiva manipolatoria che porta l’ostaggio a simpatizzare, perfino a collaborare, con i rapitori.
Isolamento
La vittima è sempre più isolata fisicamente dalle altre persone. Questo perché l’abusatore la convince a non fidarsi più dei propri amici o della famiglia. La vittima sarà portata ad assecondare il rapitore per non turbarlo o infastidirlo, per evitare, quindi, che la minaccia di abuso, comunque sempre presente, si realizzi.
Questa condizione può essere anche indotta convincendo la vittima che il mondo esterno è pericoloso, che è meglio stare al riparo con i propri aguzzini e che nessuno la salverà. In altre parole, che entrambi stanno affrontando la stessa battaglia. Quindi, la vittima si persuade di non avere altra scelta, per questo resta fedele ai rapitori. Secondo una prospettiva psicologica, in fondo si tratta di puro istinto di sopravvivenza, più forte della reazione “attacco o fuga”. È un modo per riuscire a gestire una situazione terribile.
Nessuna via di fuga
Le vittime di sindrome di Stoccolma non vedono possibilità di fuga. La paura le immobilizza. Poi, il rapitore può minacciare di uccidersi o di uccidere un familiare della vittima, nel caso tentasse di scappare. La rende quindi responsabile delle possibili scelte violente che potrebbe mettere in atto.
Tentare di costruire una connessione emotiva con il rapitore diventa, quindi, una modalità per far fronte a una realtà traumatica, in cui l’obiettivo finale è sopravvivere. Si tratta comunque di un processo inconscio, la scelta non è consapevole.
Sindrome di Stoccolma: cause e fattori di rischio
Non sono ancora chiare le cause, ma sembrano esserci situazioni specifiche scatenanti questa particolare sindrome tra vittima e carnefice. In particolare:
- La vittima sviluppa sentimenti positivi verso il suo sequestratore o abusatore.
- Prova ostilità verso la polizia che arresta il rapitore.
- Crede nell’umanità e nella bontà del suo aguzzino.
Chi sono i soggetti più a rischio?
Secondo gli studi, i soggetti più a rischio di sviluppare la sindrome sono le persone più fragili come:
- Bambini.
- Donne.
- Persone particolarmente religiose.
- Prigionieri di guerra o dei campi di concentramento.
Ma anche personalità deboli o con disturbi di natura psicologica. Secondo le statistiche dell’FBI, fino all’8% circa dei casi di sequestro di persona è interessato da questo fenomeno.
Violenza domestica o sindrome di Stoccolma?
Questa sindrome si può paragonare alle relazioni di abuso fra le mura domestiche? Non proprio. La differenza fondamentale è che nella sindrome di Stoccolma la vittima non conosce il suo aguzzino. Per la comparsa di questa particolare condizione psicologica la vittima non deve aver mai incontrato prima il suo rapitore.
Sindrome di Stoccolma domestica
Si tratta di una condizione psicologica in cui una persona, che vive in uno stato di restrizione della libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si manifesta come messa in atto di un meccanismo di coping, cioè una strategia di adattamento, per contrastare le violenze subite. Le vittime, concentrate su come sopravvivere in una situazione cronica di grande stress, cercano di evitare almeno le violenze più gravi.
Per questo motivo, si concentrano sugli aspetti benevoli del carnefice piuttosto che sulla sua brutalità. La vittima arriva perfino a convincersi di dover restare con l’abusatore per proteggere i figli e i familiari dalla violenza. È indotta a pensare che la sua vita dipenda totalmente dal suo carnefice e che l’unico modo per sopravvivere è essere fedele e obbedire.
Sindrome della donna maltrattata
Individuata dalla psicologa americana Leonore Walker, somiglia alla sindrome di Stoccolma, ma fa parte di quello che viene definito “ciclo dell’abuso”, un percorso che segue un iter preciso e termina con la fine della relazione.
- Prima fase: attivazione della tensione. Si caratterizza per un carico di negatività e tensione che grava sulla coppia, prodotto da cattiva comunicazione, paura e frustrazione.
- Seconda fase: abuso. L’abusatore tenta di dominare fisicamente o psicologicamente la vittima. Può ricorrere alla violenza o alle minacce.
- Terza fase: meccanismi di difesa. Si caratterizza da un riavvicinamento affettivo e dalla fine, anche se solo apparante e momentanea, della violenza. L’aggressore assume un atteggiamento di rimorso per ciò che ha fatto, promette cambiamenti e offre regali per rabbonire la donna. Se questa fase si protrae, la forza di volontà della vittima si indebolisce.
- Quarta fase: latenza. La relazione appare serena, ma basta poco per tornare alla prima fase e alla riattivazione della tensione. Può sembrare una fase positiva, che crea nella vittima l’illusione che l’abusatore sia davvero cambiato e che la violenza possa cessare.
La psicologa afferma che tale sindrome è comune tra le donne gravemente abusate. Ciò che la caratterizza è:
- Speranza, sempre alimentata, che il partner cambi.
- Dipendenza economica.
- Convinzione di essere in grado di gestire un equilibrio familiare nonostante la violenza.
- Paura di restare sola.
- Perdita di autostima.
- Stato di depressione.
- Incapacità anche psicologica di iniziare una vita nuova e diversa.
Sindrome di Stoccolma: diagnosi
Si può parlare di diagnosi per la sindrome di Stoccolma? Nonostante la sindrome abbia più una valenza culturale, catturando sempre l’attenzione pubblica, non esistono criteri scientifici validati dalla comunità medico-psichiatrica. Si tratta cioè di una condizione che non rientra tra i disturbi psichiatrici classificati. Infatti, non è compresa nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) ed è una sindrome piuttosto rara.
I sintomi di questa sindrome somigliano a quelli del legame traumatico (il rapporto in cui, tra due persone, una si trova in una posizione di potere e l’altra è vittima di violenza e aggressività) e del disturbo da stress post traumatico.
Per questi motivi è difficile elaborare criteri diagnostici certi. Secondo uno studio del 2008, pubblicato su Acta Psychiatrica Scandinavica, analizzando i casi riportati dai mass media, si possono distinguere quattro caratteristiche comuni nelle vittime della sindrome di Stoccolma:
- Ha subito minacce dirette.
- È stata tenuta in isolamento.
- Ha avuto l’opportunità di fuggire, ma non è riuscita a sfruttare l’occasione.
- Ha simpatizzato con i suoi rapitori anche dopo la liberazione.
Infine, la sindrome di Stoccolma non è un disturbo mentale. Si manifesta, cioè, non per cause biologiche o mentali. L’insorgenza della sindrome è dunque situazionale, non patologica.
Sindrome di Stoccolma: cure e trattamenti
Non esiste un protocollo di cura standardizzato per questa condizione. La cura più efficace è sicuramente l’approccio psicoterapeutico specializzato nella cura delle dipendenze affettive. Ma nei casi più severi, può essere utile anche associare un trattamento farmacologico.
Anche l’aiuto dei familiari, degli amici e del tempo, è certamente utile alla vittima per ritrovare un equilibrio psicologico dopo il sequestro. Infatti, tornare alla vita di tutti i giorni può essere molto difficile, così come sentirsi separati dal rapitore. Le catene diventano invisibili, poiché la vittima si sente emotivamente legata al suo aguzzino anche dopo la liberazione.
Sindrome di Stoccolma: una storia moderna
A differenza della maggior parte delle sindromi, che sono definite nel tempo, man mano che la costellazione dei sintomi primari e secondari è associata ad una eziopatogenesi comune, l’origine della Sindrome di Stoccolma può essere fatta risalire a un momento storico specifico.
Perché si chiama Sindrome di Stoccolma?
Il nome risale alla rapina avvenuta nel 1973, presso la Sveriges Kreditbanken di Stoccolma (Svezia). Il termine fu coniato dallo psichiatra Nils Bejerot che aiutò la polizia nelle trattative con i sequestratori. Quel giorno, due ex galeotti si barricarono con quattro ostaggi in un sotterraneo della banca. L’assedio durò 6 giorni e la cosa sorprendente fu che, durante il sequestro, le vittime stabilirono un rapporto emotivo con i rapinatori.
Inoltre, dopo il rilascio, gli ostaggi si erano così affezionati ai sequestratori che si rifiutarono di collaborare con la polizia e li difesero perfino al processo. Appariva paradossale, quindi, che gli ostaggi manifestassero sentimenti di gratitudine nei confronti dei loro aguzzini che, armati di mitra, mettendo continuamente in pericolo la loro vita, li avevano tenuti prigionieri per 131 ore, in uno scantinato di 17 metri quadri. Perfino una volta liberati, alcuni ostaggi rimasero in contatto con i loro rapitori.
Tutti quanti testimoniarono alle autorità di essere stati trattati gentilmente. Gli psichiatri spiegarono questo fenomeno come una forma di riconoscenza e gratitudine da parte degli ostaggi verso i carnefici poiché non li avevano uccisi e li avevano trattati con cortesia. Trovarono delle analogie con il Disturbo Post-Traumatico da Stress, tipico dei soldati di ritorno dalla guerra, ma l’associazione non era del tutto adeguata. Poiché si trattò di una particolare manifestazione comportamentale, non identificabile ad altre casistiche cliniche, gli psichiatri la definirono “sindrome di Stoccolma”.
La sindrome di Stoccolma entra nel lessico sociale
Il termine divenne parte del lessico popolare nel 1974, quando fu usato per il caso di Patty Hearst. L’ereditiera americana dell’impero giornalistico Hearst, fu rapita a 22 anni da un gruppo di militanti rivoluzionari dell’Esercito di Liberazione Simbionese, un gruppo paramilitare americano con idee rivoluzionarie. Durante la sua prigionia, durata 591 giorni, la donna avrebbe sviluppato un sentimento di dipendenza psicologica e affettiva nei confronti dei suoi rapitori. Dopo due mesi dalla liberazione, la giovane donna si unì volontariamente al gruppo rivoluzionario, partecipando anche a diverse rapine. Fu arrestata e condannata nel 1975.
L’espressione fu poi ripresa dallo psichiatra americano Frank Ochberg che inserì la sindrome tra quelle riportate nei programmi per la formazione degli agenti dell’FBI incaricati di gestire le situazioni con ostaggi.
Sindrome di Stoccolma al cinema
Sono molti i film che hanno raccontato, direttamente o indirettamente, la sindrome di Stoccolma. Tra questi:
L’uomo che sapeva troppo
Nel capolavoro di Alfred Hitchcock del 1956, “L’uomo che sapeva troppo”, un medico e sua moglie si trovano coinvolti in un intrigo politico durante una vacanza in Marocco.
Il loro unico figlio, Hank, viene rapito con richiesta di riscatto. Due dei rapitori, un uomo e una donna, provano sentimenti di protezione nei confronti del bambino.
Nella parte finale del film, la scena si svolge all’interno di una lussuosa residenza, durante un ricevimento. Nello stesso palazzo, il capo dei rapitori ha fatto rinchiudere il bambino, affidandolo ai due complici. Ma, quando la madre del bambino inizia a suonare il pianoforte e a cantare “Que sera, sera” (la canzone che era solita cantare per farlo addormentare), uno dei complici esorta il bambino, rinchiuso in una stanza non lontano dal salone, a fischiettare con tutte le sue forze la stessa canzone, per far si che i genitori riescano a sentirlo.
Mentre la madre continua a cantare, il padre, seguendo il fischiettio riesce a trovarlo. Nello stesso momento, uno dei due rapitori che si era affezionato al bambino, entra nella stanza per uccidere Hank, secondo gli ordini del capo, ma appare turbato e indeciso. Grazie a questa esitazione, il padre riuscirà a salvare il piccolo.
La Bella e la Bestia
Ambientato nella Francia del XVIII secolo, un giovane principe è tramutato in bestia per mano di una fata. L’incantesimo si romperà solo se una ragazza si innamorerà di lui. La giovane Belle, saputo che il padre, dopo varie peripezie, è stato imprigionato al castello del principe, si offre in ostaggio al suo posto. Nel finale, la Bestia, ormai morente, dichiara a Belle il proprio amore e la ragazza rivela di amarlo a sua volta. L’incantesimo è infranto.
Quel pomeriggio di un giorno da cani
Sal e Sonny, due reduci dal Vietnam, assaltano una banca, ma la polizia interviene prima che riescano a fuggire. Asserragliati all’interno dell’edificio con numerosi ostaggi, i due chiedono un aereo per fuggire. Durante l’assedio, le storie dei due diventano pubbliche e la gente radunata all’esterno per assistere alla vicenda, comincia a “tifare” per loro. Sonny sarà arrestato e Sal rimarrà ucciso. Il film si basa sulla vera storia di John Wojtowicz che, insieme a un complice, negli anni Settanta, tenne sotto sequestro gli impiegati della Banca di Brooklyn.
Il portiere di notte
Un ex ufficiale nazista lavora come portiere di notte in un albergo di Vienna. L’orrore riemerge quando incontra nuovamente un’ex deportata ebrea, Lucia, che credeva morta e con la quale aveva iniziato una relazione ambigua e perversa. L’incontro trascina i due personaggi nei ricordi terribili del passato e in un’attrazione incontrollabile che li porta a legare i loro destini, nonostante il passato che condividono.
Spaghetti House
Prendendo spunto da un fatto realmente accaduto, il film racconta la storia di un cameriere italiano a Londra, che assieme ai suoi quattro connazionali, vorrebbe mettersi in proprio. Ma il sogno dei cinque emigranti è interrotto dall’irruzione di tre malviventi che vogliono rapinare l’incasso della giornata. L’arrivo della polizia fa rintanare tutti e otto dentro la dispensa e così la rapina si trasforma in sequestro. Durante le trattative con le forze dell’ordine tra i meridionali italiani e i rapitori si passa dall’ostilità alla solidarietà.
John Q
Il protagonista è John, un operaio, uomo onesto che rispetta la legge, ma che è costretto a diventare un criminale per salvare suo figlio. Il piccolo ha bisogno di un trapianto di cuore, ma l’assicurazione non copre i costi dell’operazione. Schiacciato dall’angoscia di vedere morire il figlio e dalla freddezza della burocrazia, John sequestra un intero reparto dell’ospedale. Non riuscendo ad ottenere un cuore per il figlio, l’uomo che, nel frattempo aveva suscitato solidarietà tra i suoi ostaggi, tenta di uccidersi. Il finale, a lieto fine, vede il figlio operato e John che, nonostante l’arresto, per tutti diviene un eroe. Il film si inspira a una storia vera accaduta in Canada nel 1999.
Légami
Dimesso dal manicomio, solo al mondo, con un’infanzia tormentata alle spalle, Ricky piomba sul set di un film, dove la protagonista, Marina, sta girando la scena finale. Ricky l’aveva conosciuta tempo prima durante uno dei suoi permessi dal manicomio e cerca di avvicinarla senza esito. Decide, allora di seguirla a casa e con la forza entra nell’appartamento. Il giovane la immobilizza e le spiega che la ama da tempo, vuole che lei lo ricambi e lo sposi per diventare una famiglia.
Marina è sconvolta, ma quell’uomo la terrorizza e la intenerisce nello stesso tempo. Non può però fuggire, perché Ricky la lega al letto e l’imbavaglia. Passano i giorni e lo stato d’animo di Marina, fatto inizialmente di paura e di rabbia, inizia a trasformarsi in qualcosa di diverso. Nonostante il sequestro e le minacce, inizia a provare dei sentimenti per il suo aguzzino.
Nel frattempo i suoi colleghi della troupe iniziano a cercarla e, per un caso fortuito, la trovano per liberarla. Ma ormai Marina è innamorata di lui, non vuole abbandonarlo. Lo convince a seguirla per iniziare insieme una nuova vita.
Letteratura e sindrome di Stoccolma
Winston sarà liberato dalle prigioni del Ministero solo quando i suoi aguzzini avranno raggiunto il loro ultimo scopo: quello di indurlo a tradire l’amata Julia, a chiedere che torturino lei al suo posto. Anche Julia tradirà Winston, forse dopo una lobotomia per asportare fisicamente l’immagine dell’amato. Si consuma così il trionfo dell’amore del regime:
Alzò lo sguardo verso quel volto enorme. Ci aveva messo quarant’anni per capire il sorriso che si celava dietro quei baffi neri. Che crudele, vana inettitudine! Quale volontario e ostinato esilio da quel petto amoroso! Due lacrime maleodoranti di gin gli sgocciolarono ai lati del naso. Ma tutto era a posto adesso, tutto era a posto, la lotta era finita. Era riuscito a trionfare su se stesso. Ora amava il Grande Fratello (G. Orwell, 1984).
Con la consulenza della Dott.ssa Franca Carzedda (Psicologa e Psicoterapeuta) dell’Equipe per l’Età Evolutiva delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) e Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC).
Link esterni:
- Psichiatria e psicologia forense – La sindrome di Stoccolma: fenomeno mediatico o patologia psichiatrica? (Valentina Biagini, Stefania Zenobi, Marianna Vargas, Maurizio Marasco.
- State of Mind, la sindrome di Stoccolma domestica.