Sclerosi multipla: un esame del sangue può aiutare a prevedere se le persone che ne soffrono subiranno un peggioramento. Lo sostiene uno studio appena pubblicato su Neurology, la rivista dell’American Academy of Neurology. L’esame permette di individuare un biomarcatore denominato “catena leggera del neurofilamento” (Neurofilament Light chain, NfL), una proteina nervosa che può essere rilevata nel sangue quando le cellule nervose muoiono: le sue variazioni permettono di misurare la progressione della malattia.
Sclerosi multipla: cos’è
La sclerosi multipla (SM) è una patologia cronica neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale. Nel mondo ne soffrono 3 milioni di persone, oltre 100mila delle quali in Italia. Si tratta di una malattia autoimmune. Si scatena, infatti, perché il sistema immunitario attacca la mielina, la guaina protettiva delle fibre nervose, interrompendo le informazioni lungo i nervi. I sintomi variano da paziente a paziente, anche a seconda delle aree del corpo colpite dalle lesioni. Possono includere fatica, mancanza d’equilibrio, calo della vista e difficoltà motorie. La malattia è progressiva e fortemente invalidante. Ad oggi non esiste una cura, ma molte terapie riescono a migliorare i sintomi e la qualità della vita dei malati.
Per approfondire cause, sintomi, approccio terapeutico e stato dell’arte della ricerca sulla SM, leggi il nostro approfondimento “Sclerosi multipla: che cos’è, sintomi, diagnosi e cura”.
Un test del sangue per prevedere il decorso della sclerosi multipla: lo studio
Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia. Ha coinvolto 4.385 persone con SM e 1.026 persone, simili per età e genere, che non soffrivano di sclerosi multipla. I partecipanti sono stati sottoposti a un test per misurare i livelli del biomarcatore nel sangue e seguiti per monitorare i peggioramenti della malattia nel corso dell’anno successivo.
Il monitoraggio è andato avanti per un totale di 5 anni, durante i quali i ricercatori hanno controllato se la disabilità si fosse aggravata.
Hanno anche verificato se le persone con alti livelli del biomarcatore avessero maggiori probabilità di sviluppare una più severa disabilità e, successivamente, uno stadio più grave della malattia, denominato “sclerosi multipla secondariamente progressiva (SM-SP)”.
I risultati
Le persone con SM avevano in media 11,4 picogrammi per millilitro (pg/ml) di proteina nervosa nel sangue rispetto a una media di 7,5 pg / ml osservata nelle persone che non avevano la SM.
Ad alti livelli del biomarcatore corrispondeva una probabilità del 40-70% più alta di un peggioramento della disabilità nel corso dell’anno successivo.
Lo studio ha tenuto conto anche di altri fattori in grado di determinare un peggioramento della disabilità, come la durata della malattia e la frequenza di recidive.
Dalla ricerca è anche emerso che le persone con alti livelli di proteina avevano il 50% di probabilità in più di raggiungere un livello di disabilità moderata, che influiva sulle attività quotidiane ma non sulla capacità di camminare, o una significativa disabilità che comprometteva la deambulazione, ma non al punto da rendere necessario un aiuto per camminare.
I ricercatori, infine, hanno scoperto che livelli elevati di proteina nervosa non erano sistematicamente associati a un maggiore rischio di disabilità più significativa, definita come la necessità di un bastone o una stampella per camminare per 100 metri, o con il rischio di sviluppare sclerosi multipla secondariamente progressiva.
“Questi risultati suggeriscono che livelli elevati di questa proteina, misurati nelle prime fasi del decorso della malattia, possano aiutarci a prevedere la sua evoluzione e a monitorare l’efficacia dei trattamenti“, ha detto l’autore dello studio, Ali Manouchehrinia, Ph.D. del Karolinska Institutet.
“In una malattia come la SM che è così imprevedibile, e varia così tanto da una persona all’altra, fare un esame del sangue non invasivo come questo potrebbe essere molto prezioso, soprattutto perché i trattamenti sono più efficaci nelle prime fasi della patologia”.
“Sono necessarie – ha concluso – ulteriori ricerche prima che questo esame possa essere utilizzato di routine in ambito clinico, ma i nostri risultati sono incoraggianti”.
Fonte: MedicalXpress.
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