Il cotone è la fibra tessile maggiormente prodotta sul pianeta e tra le più usate al mondo. Eppure può contenere sostanze tossiche pericolose per l’uomo e l’ambiente e può essere prodotto in assenza totale di regole in termini di equità sociale e sicurezza sul lavoro.
La maggior parte del cotone (non bio) viene coltivato con l’uso di sementi geneticamente modificate (i “famosi” OGM) e utilizzando pesticidi e fertilizzanti di sintesi, ossia chimici. Anche la fase di lavorazione, ossia di trasformazione della fibra in tessuto, nella maggior parte dei casi prevede una serie di cicli altamente dannosi per l’ambiente: il cotone infatti viene sbiancato, lavato con detergenti, tinto molto spesso con coloranti contenenti metalli pesanti, brillantato, trattato con formaldeide, ammine aromatiche, ammoniaca e resine plastiche. I prodotti (chimici tossici) utilizzati in queste fasi possono permanere nel tessuto ed entrare in contatto con la pelle oppure essere rilasciati nell’ambiente attraverso il lavaggio o a fine vita.
Evidentemente l’uso di tutte queste sostanze, tutt’altro che naturali, ha un fortissimo impatto sulla fertilità del terreno, sull’inquinamento delle falde acquifere, sulla biodiversità e la salute dei coltivatori.
La crescente attenzione e consapevolezza dell’opinione pubblica, in particolare dei consumatori, verso tali problemi ha determinato una sempre maggiore attenzione, da parte del mondo industriale tessile e delle grandi marche, a ricercare nuove tecniche di produzione del cotone più sostenibili, come quella biologica.
Come avviene per gli alimenti bio, anche il tessuto può definirsi veramente “organico” solo se certificato. È di recente entrata in vigore la nuova versione del Global Organic Textile Standard (GOTS), un nuovo protocollo internazionale per la certificazione biologica dei tessuti, che ha introdotto regole più stringenti rispetto alle precedenti. In particolare, un tessuto può definirsi bio se è stato prodotto nel rispetto di criteri che riguardano l’intera filiera: a partire dalla semina fino al prodotto finito, passando per la trasformazione, la fabbricazione, il confezionamento, l’etichettatura ed il trasporto.
In termini pratici, un consumatore dovrebbe leggere sempre l’etichetta dei capi di abbigliamento che acquista e, nel caso delle marche che adottano lo standard GOTS, potrà leggere due tipi di etichetta, in relazione alla percentuale di fibre biologiche certificate presenti: “Biologici” (non meno del 95%), “Made with organic” e “fatti con x% di fibre biologiche” (almeno il 70%).
Esiste un’alternativa
Da diversi anni la moda ha deciso di impegnarsi su questo fronte e abbracciare la filosofia eco-sostenibile con piccoli ma rilevanti cambiamenti. Tante le iniziative lanciate, dai grandi marchi di moda cosiddetta low cost (H&M, Yamamay, Uniqlo … per citarne alcuni) ad alcune grandi firme della moda, come Giorgio Armani, Chanel, Alberta Ferretti, Tom Ford, Gucci, Yves Saint Laurent, Stella McCartney, Lanvin, Paul Smith, Valentino, Roger Vivier ed Ermenegildo Zegna.
Insomma sembra che glamour ed etica possano andare d’accordo. Moda responsabile significa sicurezza (in termini di salute) per chi indossa i capi, valorizzazione dei territori di provenienza, rispetto dell’ambiente e dei lavoratori.
Ricicla e riusa
Non dimenticare che anche il tuo comportamento può contribuire a sviluppare questo processo virtuoso. I tuoi armadi possono essere un’immensa spazzatura non biodegradabile. Per questo, segui i nostri consigli.
- Fai attenzione a quello che acquisti e leggi sempre l’etichetta
- Quando non usi più un capo non gettarlo ma regalalo o aderisci alle tante iniziative lanciate da diversi brand di “ritiro capi usati” in cambio di buoni sconto
- Se hai manualità trasforma i tuoi abiti: “nulla si distrugge, tutto si trasforma” diceva Eraclito più di duemila anni fa!
Nicoletta Cinotti