Postare la vita dei propri figli su social media e blog può far loro del male?
L’ordine degli psicologi ha lanciato un allarme social network: sembra che i genitori invadano continuamente la sfera privata dei propri figli postando sui vari Facebook e Twitter foto, episodi, frasi tratte dalla vita quotidiana. Senza filtri, senza limiti. Ma da cosa nasce questo fenomeno e quali effetti sulla psiche, ma anche sulla socialità dei nostri figli? Ne parliamo con Caterina Satta, ricercatrice in sociologia dell’infanzia e autrice di “Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia”, Carocci, 2012.
La maternità porta con sé il desiderio di condividere la quotidianità con i figli. Da cosa nasce questa esigenza?
Le trasformazioni socio-economiche e culturali degli ultimi decenni hanno avuto il doppio effetto di aumentare conoscenze e spazi di autonomia ma anche il senso di insicurezza sociale. Con l’indebolimento di molte tradizionali istituzioni, i genitori si trovano socialmente caricati di responsabilità maggiori e nella condizione di doverle gestire individualmente.
Da qui il senso di inadeguatezza e la ricerca di confronto e di conforto nell’esperienza di altre persone che stanno vivendo la stessa situazione. Si tratta di una risposta informale dettata dalla carenza di politiche e di servizi a sostegno della maternità e della genitorialità.
Ma come spiegare il comportamento di quelle madri che all’interno dei social network postano sui loro profili le foto del figlio raccontando nel dettaglio la sua vita?
Come spiegare questa tendenza alla ipercondivisione?
Condividono per sentirsi meno sole e per essere rassicurate che sono delle buone genitrici. Oggi poi l’espressione della maternità condivisa ha varie forme, ognuna con le sue regole di racconto e ricezione: blog, social network, forum. A non cambiare è la visione del figlio come un’appendice o un oggetto a cui la madre “dà voce”, esprimendo in realtà paure, desideri e aspirazioni che appartengono a lei più che al bambino.
Esiste però una differenza fra il tipo di racconto attraverso un blog e quello che avviene su Facebook o sui forum?
Abbiamo casi di madri blogger che raccontano la loro esperienza in modo critico e consapevole ponendosi quasi come modello per le altre. Non chiedono consigli, raccontano il loro vissuto e offrono esempi di risoluzione ai problemi. Le mamme invece che scrivono su Facebook o comunicano all’interno dei forum non sembrano avere la stessa consapevolezza, sembrano ripiegate in un ruolo unicamente materno, e utilizzano la rete come uno strumento di mutuo aiuto.
Se si trattasse semplicemente di un desiderio di mostrare?
C’è un processo di sacralizzazione dei figli: ogni momento della loro vita viene fotografato ed esposto. È un fenomeno che ha cause anche demografiche: abbiamo molti più adulti per meno bambini, è quindi cresciuto il valore affettivo di questi figli che sono considerati un bene inestimabile.
Il successo di un figlio è la dimostrazione all’esterno della buona riuscita come genitori. Il problema risiede nel mancato, o ridotto, riconoscimento di una soggettività al proprio figlio che così non viene rispettato. C’è una dimensione fortemente possessiva: il figlio è mio, io so cosa è meglio per lui ed io quindi definisco quanto può essere detto e non detto.
Un bambino o un adolescente che vede la vita raccontata in pubblica piazza che conseguenze psicologiche e relazionali può avere?
Non creerei allarmi di questo tipo che, in ogni caso, valuterei singolarmente. Inoltre, dobbiamo ricordarci che anche i bambini e gli adolescenti nelle loro reti sociali, reali o virtuali, parlano dei genitori raccontandone ugualmente fatti molto privati. Non sono dunque soltanto vittime di comportamenti altrui.
Il rischio è quello di crescere dei figli con un superego o di annientarne l’individualità?
Quello che può accadere è che il genitore si sostituisca al figlio nella sua vita quotidiana, negandogli la possibilità di vivere le sue esperienze in autonomia, sia quelle positive che quelle negative.
Esiste un limite?
Il limite dovrebbe essere stabilito all’interno della relazione con il figlio, accogliendo da un lato l’esigenza genitoriale di condividere e confrontarsi e dall’altro quella del figlio di avere voce sulla propria vita.
Luisa Carretti