Anoressia: c’è un’arma in più per combatterla. E’ stato infatti individuato un gene che gioca un ruolo cruciale in questo disturbo alimentare e che potrebbe diventare un bersaglio da colpire con i farmaci per rallentare l’insorgenza o il cronicizzarsi della malattia. Lo ha scoperto uno studio condotto dalla Cornell University, dall’Ateneo di Pittsburgh e dall’Università di Firenze e pubblicato sulla rivista Nature Communications.
L’anoressia nervosa è uno dei disturbi alimentari più diffusi, con una spiccata incidenza tra le donne (95%) e conseguenze devastanti per chi ne soffre. Porta infatti a una significativa perdita di peso – fino al 20% in breve tempo – a causa di un’assunzione di cibo drasticamente ridotta e di un esercizio fisico esasperato. Una patologia dalle forti componenti psicologiche: è infatti determinata da un’alterata percezione del proprio corpo, dall’ossessione per la propria immagine e dalla paura di ingrassare. Se non tempestivamente trattata, l’anoressia può diventare cronica e, nel 5-10% dei casi, porta alla morte.
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Anoressia nervosa: individuato il gene che la fa insorgere e progredire
Lo studio ha indagato i meccanismi fisiopatologici dell’iperattività fisica. Si tratta di uno dei sintomi dell’anoressia insieme alla riduzione estrema dell’apporto energetico e alla distorsione dell’immagine corporea.
“La riduzione del cibo – ha spiegato lo psichiatra Valdo Ricca, che insieme ai neurologi Benedetta Nacmias e Sandro Sorbi ha firmato il lavoro per l’Università di Firenze – attiva il gene Sirt1 che scatena l’ansia, il ricorso esasperato all’esercizio fisico come strumento per perdere peso e la gratificazione derivante dal digiuno, generando un circolo vizioso che accelera la progressione della malattia”.
Un’indagine genetica condotta su oltre 100 pazienti dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi ha confermato il ruolo chiave di questo gene nello sviluppo dell’anoressia. Nelle persone malate, infatti, il team ha trovato delle varianti di Sirt1 non riscontrabili nei quasi 4.000 soggetti sani di controllo.
I ricercatori hanno così sperimentato, attraverso modelli animali, che l’inibizione genetica o farmacologica di Sirt1 è in grado di ritardare l’inizio o l’aggravarsi della patologia.
“La ricerca – ha concluso Ricca – è molto innovativa e apre alla possibilità di sperimentare trattamenti terapeutici che, agendo su Sirt1, possano modificare le gratificazioni che i pazienti traggono dall’esercizio fisico esasperato, uno dei fattori responsabili della cronicizzazione dei sintomi”.
Fonte: Intoscana.it
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