Sommario
Cosa vuol dire empatia? È la capacità di comprendere i pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona. Si tratta di una definizione dell’empatia che indica un processo che si attiva quando cessiamo di focalizzare l’attenzione soltanto sui nostri pensieri e sulle nostre percezioni, per attivare un reale interesse verso l’altro.
Quindi, l’empatia non è solo “mettersi nei panni dell’altro” o come dicono gli anglosassoni “in your shoes”, ma si basa su una relazione di scambio, in cui l’individuo mette in secondo piano il suo modo di percepire la realtà, per cercare di comprendere le esperienze e le percezioni altrui.
Che cosa significa empatia? Definizione e significato
Per capire il significato dell’empatia dobbiamo partire dalla parola stessa. Il termine deriva dal greco en-pathos e tradotto letteralmente significa “sentire dentro”‘.
L’empatia è quindi la capacità umana di mettersi al posto degli altri per comprenderli meglio. Saper avvertire e interpretare le emozioni degli altri, comprendere la loro prospettiva ed essere capaci di dare una risposta anche affettiva.
Quindi, non solo “mettersi nei panni dell’altro”, ma saper attivare uno scambio, saper mettere in primo piano la percezione e la visione che l’altro ha della realtà, senza confonderla con la propria, al tempo stesso. Inoltre, essere capaci di comunicare la nostra partecipazione così che l’altro la percepisca effettivamente.
Anche l’assertività o asserzione, intesa come la capacità di esprimere sé stessi nel rispetto degli altri, comprendendo i propri bisogni, le proprie emozioni ed obiettivi ha a che fare con l’empatia. Consente, infatti, di smorzare ogni conflitto e permette all’altro di comunicare liberamente e di sentirsi accolto.
Ma come si dimostra l’empatia?
Significato di empatia
Le componenti dell’empatia sono state per la prima volta individuate dalla psicologa americana Norma Feshbach e sono le capacità di:
- Capire gli stati emotivi degli altri.
- Assumere la prospettiva dell’altro.
- Rispondere affettivamente alle emozioni provate dagli altri.
Le prime due componenti sono abilità cognitive, mentre la terza riguarda la sfera affettiva ed emotiva.
Il contrario dell’empatia: la dispatia
Invece, con dispatia, si intende il rifiuto o l’incapacità di condividere le emozioni e i sentimenti degli altri. Il termine è stato proposto dallo psichiatra J.L. González per definire il processo volontario di esclusione di: sentimenti, atteggiamenti, motivazioni e pensieri indotti dagli altri.
Quindi non si tratta di un contrario di empatia che vuol dire indifferenza o di freddezza emotiva, ma di una azione mentale compensatoria all’empatia, con l’obiettivo di proteggere e di impedire che le emozioni altrui creino un disagio psichico.
Empatia e psicologia
Quali sono i tre principi alla base dell’empatia? Secondo lo psicologo Martin Hoffman: cognitivo, affettivo e motivazionale.
L’empatia richiede la capacità di immedesimarsi nell’altro, un concetto affrontato da Daniel Goleman nel suo libro del 1995 Emotional Intellingence: Why It Can Matter More Than IQ. Ma cos’è l’intelligenza emotiva? La capacità di riconoscere, accogliere e usare le proprie e altrui emozioni, affinché pensieri e azioni seguano di conseguenza in modo sano, consapevole e funzionale.
- Empatia cognitiva. È la capacità di percepire la prospettiva di un’altra persona per comprenderne i pensieri, le emozioni e le azioni. Infatti, si intuisce il pensiero dell’altro e se ne comprende il punto di vista, anche senza implicare necessariamente una condivisione emotiva. Quindi, si può riassumere con “capisco ciò che stai vivendo”.
- Empatia emozionale. Si intende la risposta emotiva che deriva dalla consapevolezza che l’emozione condivisa proviene dall’emozione dell’altro: condivisione vicaria, provare ciò che prova l’altro. Grazie all’empatia, si comprende e “si sente” lo stato d’animo altrui, si percepisce il suo stato emotivo e la “qualità” del suo vissuto. Quindi, si può riassumerne con “provo quello che provi tu”.
- Empatia motivazionale. Si manifesta quando si vuole empatizzare con una persona che sta soffrendo, offrendo il nostro aiuto. Tale motivazione parte proprio dalla condivisione delle emozioni dell’altro: il gesto di aiutare creerebbe uno stato di benessere nella persona empatica.
Disposizione empatica
Ma cosa vuol dire essere una persona empatica? E’ anche una questione di predisposizione, cioè quando si vuole empatizzare con una persona che sta soffrendo, offrendo il nostro aiuto. Tale motivazione parte proprio dalla condivisione delle emozioni dell’altro: il gesto di aiutare creerebbe uno stato di benessere nella persona empatica.
Gran parte del mondo scientifico considera l’empatia come una predisposizione, un tratto della personalità o un’abilità che si possiede.
Si definisce come “disposizione empatica” questa capacità o attitudine individuale ad essere empatici.
Possedere una buona disposizione empatica vuol dire anche essere dotati di uno strumento relazionale importante sia nei ruoli professionali che sociali. Pensiamo a un insegnante, un allenatore, un avvocato, un poliziotto, ma anche a un genitore e a chi esercita una professione d’aiuto (psicologo, medico, infermiere, ecc.).
Quindi essere persone empatiche ci aiuta a:
- Comprendere meglio i bisogni e i pensieri delle persone che ci circondano (partner, colleghi, genitori, figli, amici, ecc.).
- Sentire e comprendere le emozioni, gli intenti, i pensieri e i bisogni degli altri per offrire un supporto adeguato.
- Capire con maggiore chiarezza la percezione che creiamo negli altri con le nostre azioni e le nostre parole.
- Affrontare con più efficacia la negatività dell’altro attraverso una migliore comprensione delle motivazioni.
- Diventare dei leader, partner, amici o genitori migliori.
- Comunicare in modo efficace con le altre persone.
Intelligenza emotiva ed empatia: quali sono le differenze?
Alcuni studiosi definiscono l’intelligenza emotiva come l’abilità di identificare, comprendere, valutare e impiegare le proprie emozioni e quelle altrui. Ciò significa che le persone con una spiccata intelligenza emotiva riescono a riconoscere e differenziare le proprie emozioni e quelle degli altri, utilizzando questa consapevolezza per orientare il loro pensiero e comportamento.
Più specificamente, l’intelligenza emotiva racchiude una serie di competenze essenziali che aiutano a gestire e ottimizzare il proprio comportamento e le interazioni sociali. Queste comprendono:
- Consapevolezza emotiva, per identificare le proprie emozioni e riconoscere gli stati emotivi.
- Regolazione delle emozioni, cioè l’abilità di controllare le proprie emozioni in maniera costruttiva, evitando risposte impulsive o eccessive.
- Empatia, la predisposizione a comprendere i sentimenti altrui e ad adottare il loro punto di vista.
- Gestione delle relazioni, l’abilità di creare e mantenere relazioni interpersonali positive, controllando le emozioni proprie e altrui.
Quindi, l’empatia è un aspetto chiave dell’intelligenza emotiva, poiché è la capacità di percepire e condividere le emozioni degli altri, osservando il mondo dalla loro prospettiva.
L’empatia è pertanto una parte dell’intelligenza emotiva, ma non ne esaurisce il significato. Chi possiede un’alta intelligenza emotiva non solo è empatico, ma possiede anche la capacità di gestire efficacemente sia le proprie emozioni, sia quelle altrui.
Empatia e neuroni specchio
È solo di recente che le Neuroscienze hanno scoperto le basi biologiche dell’empatia. Nei primi anni Novanta, un gruppo di ricercatori guidato da Giacomo Rizzolatti, presso l’Università di Parma, scoprì l’esistenza di un gruppo di neuroni altamente specializzati e presenti nella parte rostrale della corteccia ventrale premotoria che si attivavano in occasione di movimenti specifici.
Registrando l’attività elettrica della corteccia di un gruppo di macachi, i ricercatori notarono che la parte del cervello deputata a pianificare un’azione si attivava anche nel vedere un altro individuo compiere la stessa azione. Poi, ricerche successive hanno confermato la presenza di questi neuroni anche nell’uomo. Quindi, quando osserviamo una persona compiere un’azione, oltre alle aree visive si attivano anche circuiti cerebrali che normalmente si attivano durante l’esecuzione di quelle stesse azioni.
Tale scoperta ha aperto nuovi orizzonti per la comprensione delle relazioni umane, modificando l’interpretazione del rapporto tra azione, percezione e processi cognitivi.
La ricerca, nello specifico, ha evidenziato l’esistenza di un meccanismo neurofisiologico in grado di chiarire molti aspetti della nostra capacità di entrare in relazione con gli altri, come la capacità di cogliere il significato delle azioni altrui, di imitarle e di comprenderne le intenzioni.
Il processo di rispecchiamento descritto da Rizzolati è un processo istantaneo, per cui non si può considerare un’imitazione, ma si tratta di comprensione diretta, cioè di un’esperienza interna che si traduce in azione senza la mediazione del pensiero.
Quindi, i neuroni specchio forniscono elementi di grande interesse per la spiegazione biologica dell’empatia: l’attivazione delle stesse strutture neuronali, sia nell’atto di compiere un’azione o di provare un’emozione, sia nell’atto di osservarla in un’altra persona.
Questo processo permetterebbe di cogliere il vissuto dell’altro in maniera immediata, determinando un’esperienza diretta e fisiologica, diversa da un ragionamento o da un processo mentale.
Tipi di empatia: positiva e negativa
Empatia positiva
L’empatia positiva è la capacità di un individuo di entrare in relazione emotiva con gli altri, quindi di partecipare alla gioia o al dolore altrui. Si differenzia dalla simpatia (dal greco sympatheia e più nello specifico da syn, “insieme” e patheia, “sentimento”, quindi “sentire insieme”) che fa invece riferimento alla preoccupazione per qualcuno o al desiderio di vedere quella persona in uno stato di benessere.
È quell’affinità che si ha con gli amici, ad esempio, basata spesso anche su esperienze comuni, ma non prevede la condivisione emotiva, il “sentire dentro” tipico dell’empatia che comporta sicuramente più impegno e disponibilità.
Empatia negativa
Invece, l’empatia negativa caratterizza chi non riesce a empatizzare con la sfera emotiva altrui, poiché il proprio vissuto e le proprie emozioni prendono il sopravvento e ostacolano l’attenzione verso l’altro. Quindi, questa barriera che impedisce di entrare in consonanza con l’altro, può derivare da un’esperienza negativa presente o passata che blocca la capacità di partecipazione emotiva.
Empatia nel rapporto genitori e figli
Per la crescita del bambino è fondamentale un ambiente in grado di agevolare il suo sviluppo fisico ed emotivo, una base sicura per creare quei legami necessari ad affrontare la vita. Infatti, educare basandosi sull’empatia vuol dire entrare in relazione con i figli, cercare di mettersi nei loro panni e osservare come vedono il mondo esterno.
In questo senso occorre superare il concetto che il bambino è una specie di contenitore vuoto da riempire. Invece, va ascoltato per capire cosa ha dentro di sé e per aiutarlo a sviluppare le proprie potenzialità.
Teoria dell’attaccamento
È John Bowlby con la sua “teoria dell’attaccamento” a indicare come il legame relazionale che si crea tra il bimbo e le figure adulte che si prendono cura di lui (caregivers), è innato.
Bowly si riferisce soprattutto alla specifica relazione madre/bambino in cui i piccoli dimostrano il loro attaccamento attraverso schemi comportamentali di base: sorriso, pianto, aggrapparsi e suzione (non inteso come bisogno di cibo).
Questi schemi sono innati e istintivi e assicurano al bambino protezione e cure per la sopravvivenza. Quindi, il comportamento di attaccamento è in parte predeterminato e si sviluppa in base al corso degli eventi. Pertanto, la figura genitoriale assume un valore fondamentale per la crescita non solo fisica ma psichica ed emotiva.
Genitori: tipologie
Per Daniel Goleman, il “padre” dell’intelligenza emotiva, esistono 4 tipologie di genitore:
- Noncuranti: sottovalutano, ridicolizzano o ignorano le emozioni negative dei figli.
- Censori: rimproverano e puniscono i figli per la manifestazione dei loro sentimenti negativi.
- Lassisti: accettano le emozioni negative dei figli dimostrandosi empatici, ma non riescono a porre dei limiti al loro comportamento e dunque a guidarlo.
- Allenatori emotivi: simili ai genitori lassisti, sono invece capaci di parlare delle emozioni che prova il bambino, insegnandogli a definirle e a trovare insieme una soluzione.
Saper riconoscere le emozioni, essere empatici, significa tuttavia che il genitore deve diventare per primo consapevole delle proprie emozioni e allenarsi emotivamente.
Empatia a scuola
L’empatia è quell’abilità che ci permette di sintonizzarci su quello che un’altra persona sente o che potrebbe pensare, consentendoci di interagire efficacemente nel mondo sociale.
È sempre Carl Rogers, il padre “dell’intelligenza emotiva”, che per primo introduce l’empatia come qualità fondamentale di ogni relazione d’aiuto e definisce l’insegnante come un facilitatore d’apprendimento.
Le tre caratteristiche che un insegnante dovrebbe possedere sono: autenticità, fiducia e rispetto e capacità di ascolto (l’empatia).
Ma cosa deve fare un insegnante per creare un ambiente empatico? In termini pratici l’insegnante dovrebbe:
- Creare un ambiente-classe accogliente.
- Aiutare gli alunni a scegliere gli obiettivi personali e a negoziare quelli del gruppo.
- Fornire strumenti e stimoli per l’apprendimento.
- Accettare e valorizzare ogni aspetto emotivo ed intellettuale del gruppo.
- Far parte del gruppo come risorsa e condividerne idee e sentimenti.
Tuttavia, si potrebbe considerare questa visione un po’ troppo idealistica e lontana dalla realtà, soprattutto se calata nel contesto scolastico italiano, con classi numerose e programmi scolastici rigidi e prestabiliti.
L’importanza della comunicazione
Eppure l’empatia è alla base di ogni comunicazione efficace, è un ascolto attivo privo di giudizio, in cui chi parla sente di essere realmente compreso e accettato.
Certamente non è empatica la tipica frase “potresti fare di più”, che stabilisce a priori che lo studente è pigro e svogliato. Infatti, sarebbe più utile chiedersi perché quello studente potrebbe fare di più e come aiutarlo. Perché la percezione che ognuno di noi ha di se stesso dipende molto da come si sente giudicato dagli altri, soprattutto se a giudicare è chi è chiamato a valutare le nostre capacità.
Creare in classe un clima empatico – in cui si riesca ad ascoltare e comprendere cosa accade emotivamente negli studenti, accettandone le diverse personalità e opinioni, anche se differenti dalle proprie, favorendo l’apertura e la discussione – non risolverà certamente tutti i problemi della scuola ma può aiutare la crescita individuale, che è il primo compito di ogni studente, come di ogni persona.
Empatia nella coppia
Stare in coppia vuol dire portare all’interno della relazione amorosa ciò che siamo, la nostra storia personale e tutte le esperienze positive o negative vissute. Più queste esperienze riguardano rapporti, anche familiari, basati sull’empatia, più sarà possibile essere accoglienti e pronti all’ascolto attivo del partner.
Invece, se questo tipo di esperienze non ha fatto parte del nostro bagaglio personale? Si può “imparare” l’empatia? La risposta è sì.
Capire la sfera emotiva dell’altro
L’ascolto è sicuramente la prima abilità da apprendere. Ma ascoltare non vuol dire solo ‘sentire’ ciò che viene detto ma comprendere anche ciò che non è detto a parole, ovvero decifrare la sfera emotiva dell’altro.
Quando si ascolta empaticamente, si trasmette all’altro l’importanza di quello scambio e ciò alimenta la fiducia e la relazione. Si può capire dove si trova l’altro emotivamente.
Ma la dinamica è un po’ più complessa e richiede anche l’azione. Perché all’interno di una coppia non basta capire che il partner sta soffrendo. Essere empatico vuol dire anche riuscire a dare una risposta efficace, adeguata e coerente con il bisogno specifico del partner.
Empatia e coppia: accettare la diversità
Per essere empatici in coppia è necessario anche accettare le diversità. È facile andare d’accordo con chi ha le nostre stesse opinioni o quando si provano le stesse emozioni. È difficile invece entrare in relazione con la diversità e accettare che il mondo emotivo o le opinioni dell’altro abbiano lo stesso valore delle nostre. L’accettazione del partner, delle sue caratteristiche e della sua personalità, è certamente un fattore essenziale nella relazione d’amore e l’empatia può sicuramente venirci in aiuto.
Quindi, l’empatia è una capacità molto importante nella coppia, aumenta il grado di intimità e di vicinanza reciproca ed è un’occasione di crescita non solo per la relazione, ma per le persone che ne fanno parte: sentirsi accolti, rispettati e non giudicati sono momenti necessari per il benessere psicologico di ognuno.
Empatia e psicoterapia
L’ascolto di uno psicoterapeuta all’interno di un percorso terapeutico è un chiaro esempio di empatia attiva. Fa parte delle abilità del terapeuta di ascoltare in maniera attenta, accogliente e senza giudizi. È una forma di ascolto che offre diversi vantaggi:
- Consente di sentirsi accettati.
- Stimola nei pazienti la possibiltà di sviluppare empatia.
- Migliora la qualità del dialogo.
Comprendere le emozioni e gli stati d’animo altrui è essenziale in quest’ambito e riuscire a immedesimarsi negli altri dimostra una matura intelligenza emotiva.
Facendo propri questi principi, si può crescere in empatia e arricchire le proprie relazioni sociali.
Empatia: si può misurare?
Se l’empatia è la capacità di immedesimarsi nello stato emotivo di un’altra persona, senza confonderlo con il proprio, è indubbiamente difficile valutarla mediante un test. Infatti, l’empatia è un costrutto complesso e non esiste un approccio unilaterale, che può essere cognitivo o affettivo. Pertanto è piuttosto difficile stabilire dei metodi di misurazione validi. Tra le tante tecniche di misurazione si posso elencare le più utilizzate:
- Empathy scale. Si basa sulla misurazione di 4 aspetti principali: autoconsapevolezza, buon carattere, anticonformismo e sensibilità.
- Questionnaire Measure of Emotional Empathy (QMEE). Questo questionario valuta la reazione empatica alle esperienze affettive degli altri, sia positive che negative. Le femmine ottengono in genere punteggi nettamente più alti rispetto ai maschi.
- Iterpersonal Reactivity Index. Misura aspetti come: fantasia-empatia (identificazione con personaggi di cinema, teatro, letteratura); perspective taking (adottare il punto di vista altrui); preoccupazione empatica (compassione e preoccupazione verso persone che vivono esperienze spiacevoli); disagio personale (ansia e disagio causati dall’assistere a esperienze spiacevoli di altre persone; incapacità di coping e distanziamento).
Quest’ultimo è uno dei questionari più utilizzati nella ricerca sulla responsività empatica e denota buone caratteristiche psicometriche di stabilità e coerenza interna.
Carenza di empatia
I processi neurofisiologici coinvolti nell’empatia coinvolgono varie aree cerebrali complesse che, spesso, svolgono anche altre funzioni. Per questo motivo, la diminuzione delle capacità empatiche può essere associata a disturbi o patologie, in particolar modo nei disturbi della personalità.
Ci sono due categorie di disturbi molto complessi e difficili da trattare, con eziopatogenesi multifattoriale e poco nota, e che predispongono a condotte antisociali anche gravi: psicopatia e psicosi.
Anche nei pazienti affetti da schizofrenia si denota un deficit di empatia e di riconoscimento delle emozioni altrui, ma è soltanto un sintomo tra i tanti e raramente rappresenta un problema per la sicurezza sociale.
Persone antisociali
Le persone antisociali o gli psicopatici manifestano un basso livello di empatia, se non completamente assente (anche se possiedono una buona capacità di riconoscere alcune emozioni altrui, specialmente la paura), nessuna sensibilità verso i problemi degli altri, spregiudicatezza e indifferenza verso norme e valori. Sono refrattari a ogni tipo di terapia e la loro intelligenza, generalmente nella norma o anche al di sopra della media, ostacola la loro individuazione prima che abbiano compiuto dei danni concreti.
Sono i genitori e i familiari a sperimentare per primi la difficoltà e la frustrazione del rapportarsi con persone (compresi bambini e adolescenti) con gravi deficit di empatia o di riconoscimento delle emozioni altrui.
Empatia e autismo
Ad esempio, nella sindrome dello spettro autistico, soprattutto nelle forme medio-gravi, sono presenti numerosi disturbi della comunicazione verbale e non verbale, associate spesso ad alcune forme di ritardo cognitivo.
Infatti, il bambino autistico è refrattario alla comunicazione diretta, non riconosce molti tipi di emozioni o non vi risponde adeguatamente. Invece, sembra preferire il contatto e l’attività con gli oggetti piuttosto che con le persone e, spesso, si chiude in un mutismo o un soliloquio incomprensibili agli occhi dei genitori e degli insegnanti.
La comunicazione umana, nel senso più generale del termine, è ricca di scambi emozionali, con o senza partecipazione empatica, pertanto è naturale che il sintomo più difficile da accettare da parte dei parenti di pazienti autistici sia proprio il deficit di empatia e di riconoscimento delle emozioni.
Carenza di empatia in ambito neurologico
In ambito neurologico invece si è evidenziato che lesioni delle aree frontali cerebrali, in particolare la corteccia prefrontale, comportano alterazioni comportamentali che ostacolano la comunicazione e l’interazione sociale. Le demenze frontali, come ad esempio il morbo di Alzheimer, così come ictus o alcuni traumi cranici, determinano la “sindrome frontale”.
E’ una condizione che apporta significativi cambiamenti nella condotta sociale, nella personalità, nella capacità di autocontrollo, in quella empatica e nella disinibizione del paziente.
Differenza tra empatia femminile e maschile
L’empatia è spesso considerata, anche grazie a numerosi stereotipi culturali, come una qualità tipicamente femminile, poiché consente di assolvere al meglio il compito materno. E gli uomini? Esistono delle differenze tra empatia maschile e femminile?
Se per empatia si intende la capacità di comprendere le emozioni e il punto di vista di un’altra persona, si tratta di un processo che comporta l’attivazione di funzioni complesse su molti livelli, associando elementi cognitivi e affettivi, ma anche sociali e culturali.
Secondo alcune ricerche, la misurazione dell’empatia mediante self-report potrebbe indurre a risposte influenzate dall’identificazione dei partecipanti agli stereotipi culturali, in cui ci si aspetta dalle donne un certo grado di empatia e di moralità, mentre per l’uomo una reazione scarsamente empatica sarebbe normale, perché non è socialmente un’abilità richiesta.
Empatia e testosterone
Ma allora in cosa si differenzia l’empatia maschile e quella femminile? Secondo alcuni esperimenti gli uomini riuscirebbero ad essere empatici solo per immedesimazione, mentre sono meno inclini all’empatia emotiva. Ciò vuol dire che empatizzano solo se quello che ascoltano presenta delle affinità con la propria storia personale. Quindi il genere maschile ha una modalità diversa per esprimere empatia.
Esistono basi biologiche per spiegare tale diversità? Secondo uno studio condotto da Jack van Honk, professore del Dipartimento di Psichiatria presso l’Università di Cape Town (Sud Africa) esisterebbe una relazione tra empatia e testosterone, un ormone maggiormente presente nel corpo maschile che influenza lo sviluppo cerebrale e il suo comportamento sociale.
Durante un esperimento è stato chiesto a 16 donne di eseguire un test nel quale dovevano comprendere lo stato emotivo di alcune persone guardandole negli occhi.
Alle donne cui era stato somministrato testosterone in pastiglie prima del test, le abilità empatiche calavano del 75%.
Empatia: cenni storici
La parola empatia deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”.
Già Platone e Aristotele erano consapevoli del processo di immedesimazione che si attivava nell’arte, in particolar modo nel teatro, tra spettatore ed eroe tragico. Difatti, pubblico e protagonista soffrivano insieme, diventavano tutt’uno. Ma per i Greci l’empatia non aveva il significato che oggi le attribuiamo. Tolomeo parla di “passione fisica” e lo stesso Aristotele di “pietà e compassione”.
È solo nella seconda metà del Settecento, in Germania, che appare il termine Einfühlung, “sentire dentro”, che nasce in pieno Romanticismo per descrivere, soprattutto nell’arte e nella filosofia, la fusione tra uomo e natura come nuova percezione del mondo. Mentre, il filosofo Robert Vischer nel 1873 la definisce “la capacità di percepire la natura esterna, come interna, appartenente al nostro stesso corpo”.
Significato di empatia: definizione di Edith Stein
Sarà Theodor Lipps nel 1906 a utilizzare la parola Einfühlung per descrivere l’empatia come funzione psicologica fondamentale per la partecipazione emotiva.
Invece, nel 1917, sarà Edith Stein a fare un passo avanti nella definizione di empatia come comunicazione intersoggettiva: “l’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di un altro, di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell’ignoto, diventa elemento dell’esperienza più intima cioè quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto”.
Empatici si nasce o si diventa?
Si può diventare empatici o è un’abilità ereditata dalla nascita? La riposta è sì, ci si può “allenare” all’empatia. Ecco alcune utili strategie per potenziare un atteggiamento empatico nei confronti degli altri. Come sviluppare l’empatia in 4 mosse:
- Ascolto attivo, sospendendo pregiudizi e giudizi.
- Riconoscere e gestire le emozioni altrui e degli altri.
- Entrare emotivamente in contatto con gli altri per comprenderli.
- Interagire con persone diverse, anche con chi abbiamo poco in comune, può aiutare a sviluppare l’empatia.
Con la consulenza della Dott.ssa Teresa Cosentino, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale; Docente presso l’Associazione di Psicologia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva s.r.l.; Socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC); Membro del Comitato di Redazione della rivista “Cognitivismo Clinico”.
Fonti