I chili di troppo aumentano il rischio di cadere in depressione. Di ben il 17%. Questo perché sovrappeso e obesità causerebbero problemi psicologici di autostima, con la conseguenza di rischi depressivi in crescita. Ed è un problema che colpisce quasi la metà della popolazione mondiale.
È la conclusione cui sono giunti i ricercatori dell’Università e dell’ospedale di Aarhus, in Danimarca. Secondo gli studiosi, portarsi dietro tutto questo peso in più peggiorerebbe la salute mentale.
Il nostro studio indica che la posizione del grasso corporeo sul corpo non fa alcuna differenza per il rischio di depressione. Ciò suggerisce che sono le conseguenze psicologiche del sovrappeso o dell’obesità che portano all’aumento del rischio di depressione e non al biologico diretto effetto del grasso.
Le analisi dello studio
I ricercatori hanno analizzato i dati provenienti da due grandi gruppi di dati genetici con il metodo della randomizzazione mendeliana. Il primo gruppo contiene i dati che legano le variazioni genetiche e le misurazioni fisiche. L’altro, invece, contiene informazioni sui legami tra variazioni genetiche e depressione.
Grazie all’incrocio di questi dati, gli scienziati hanno studiato la relazione tra massa grassa, massa non grassa, altezza e depressione. Osservando la relazione specifica che si creava tra quantità di grasso corporeo e malattia.
Dai risultati è emerso che chi aveva dieci chili in più di grasso corporeo vedeva aumentare il rischio di depressione del 17%. E che questa percentuale è legata non alla distribuzione del grasso, quanto soltanto alla sua presenza.
Oltre alle note conseguenze fisiche dell’obesità come il diabete e le malattie cardiovascolari, esiste anche una componente psicologica significativa e ora ben documentata che deve anche essere affrontata.
Una riduzione della massa grassa, spiegano ancora, riduce il rischio di depressione e fornisce un ulteriore sostegno alle misure di salute pubblica volte a ridurre l’epidemia di obesità. Per questo, concludono, non bisogna stigmatizzare gli sforzi che la società sta facendo in tal senso.
Fonte: Università di Aarhus