È l’elisir di lunga vita di molti dei centenari del nostro Paese. Il “gene della longevità“, isolato nel DNA delle persone con più di 100 anni, è ciò che consente ad alcuni anziani di vivere a lungo.
E ora potrebbe essere messo alla base di una terapia rivoluzionaria in grado di ringiovanire i vasi sanguigni e proteggere i pazienti da patologie cardiovascolari e malattie neurodegenerative, come Alzheimer e Parkinson.
A dimostrare le potenzialità del “gene della longevità” è la ricerca di un team di scienziati dell’Università degli Studi di Salerno, dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (Isernia) e dell’I.R.C.C.S. MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano).
Le premesse dello studio
Gli studiosi sono partiti da un risultato ottenuto in una ricerca passata. Avevano scoperto, infatti, che nel DNA dei centenari c’è un gene, il Lav- BPIFB4 (Longevity Associated Variant), in grado di determinare una maggiore produzione di una proteina, la BPIFB4.
E questa proteina, se presente in alti livelli nel sangue, ha una funzione protettiva dei vasi sanguigni.
Gli esperimenti in laboratorio
Usando la terapia genica, i ricercatori hanno trasferito questo gene nel DNA di alcuni topi, soggetti ad arteriosclerosi e malattie cardiovascolari. Il risultato è stato un vero e proprio ringiovanimento dei vasi sanguigni e del sistema cardiocircolatorio.
Lo stesso effetto positivo è stato osservato anche in provetta, somministrando direttamente la proteina nei vasi sanguigni umani, e direttamente su un gruppo di pazienti.
I risultati – ha spiegato Annibale Puca, che ha coordinato lo studio – sono estremamente incoraggianti. Abbiamo osservato un miglioramento della funzionalità della superficie interna dei vasi sanguigni (endotelio), una riduzione di placche aterosclerotiche nelle arterie e una diminuzione dello stato infiammatorio.
L’idea, concludono, è di mettere a punto una terapia per somministrare la proteina prodotta dal “gene della longevità” a tutte le persone che non dispongono di questo scudo naturale, con l’obiettivo di contrastare i danni cardiovascolari.
E di gettare, quindi, le basi per terapie ancor più ambiziose, che potrebbero contrastare patologie come tumori e malattie neurodegenerative.
Fonte
UNISA– Università di Salerno.