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Coronavirus: cos’è, quali sono i sintomi del Covid-19, come si trasmette, le misure di prevenzione

Coronavirus: cos'è, sintomi, varianti, vaccini, cure

Si chiama “nuovo coronavirus”, o “Sars-CoV-2” . Il nome gli è stato attribuito dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV), l’ente internazionale che si occupa di classificazione dei virus. È il nemico contro cui tutto il mondo combatte da dicembre 2019. Da quando, cioè, questo nuovo ceppo di coronavirus, la famiglia di virus responsabili di malattie che spaziano dal raffreddore alla SARS (Sindrome Respiratoria Acuta Grave), ha fatto la sua comparsa in Cina, nella città di Wuhan.

Da allora, questo virus si è diffuso in tutto il mondo. Ha scatenato una pandemia che in pochi mesi ha contagiato oltre 8 milioni di persone e mietuto 2,6 milioni di vittime. (Puoi tenerti aggiornato sulla diffusione del contagio consultando i dati in tempo reale del Center for Systems Science and Engineering (CSSE) della Johns Hopkins University. Clicca per la versione desktop del grafico. Clicca per la versione mobile).

Vaccini e terapie risolutive: a che punto siamo

Contro la Covid-19 (la malattia causata dal SARS-CoV-2), al momento, non esistono terapie risolutive.

Sono, invece, disponibili diversi vaccini approvati dalla autorità regolatorie e farmaci per controllarne la sintomatologia e prevenire le complicanze gravi.

A causa dei problemi logistici connessi alla distribuzione delle dosi e del rallentamento della produzione industriale dei vaccini, rispetto al programma predisposto, l’estesissima campagna vaccinale attualmente in corso sta richiedendo molti mesi.

La contestuale diffusione delle varianti del virus ha aumentato la contagiosità del virus, ampliandone la capacità diffusiva.

Questo quadro rende necessaria la proroga delle restrizioni agli spostamenti e alla vita sociale e l’adozione delle misure di protezione individuale e di distanziamento sociale.

Poiché la trasmissione del virus avviene per via respiratoria, attraverso le goccioline di saliva che emettiamo normalmente quando parliamo, tossiamo o starnutiamo, possiamo proteggerci dal contagio mantenendo la distanza interpersonale, usando la mascherina e lavandoci frequentemente le mani con acqua calda e sapone.

Scopri tutto quello che c’è da sapere sul Coronavirus, sui suoi sintomi, su come si trasmette e sulle misure di prevenzione più efficaci.

Cosa sono le varianti

Un virus è un microorganismo dotato di un patrimonio genetico (che può essere composto di DNA oppure di RNA) racchiuso in un involucro costituito di proteine e definito “capside”.

Quando il virus si duplica deve produrre una copia del suo DNA (o RNA, come nel caso del SARS-CoV-2) da inserire nel microorganismo “figlio”. Nell’eseguire la trascrizione può commettere degli errori, che producono mutazioni nel suo patrimonio genetico. Più velocemente si duplica, più facilmente (per questioni puramente statistiche) può sbagliare.

Così come avviene per tutte le specie, e in ossequio alla Teoria di Darwin, le mutazioni sono trasmesse alla progenie quando sono vantaggiose.

Nel caso del virus, quando si può dire che siano vantaggiose? Quando gli permettono di contagiare più persone possibili, per esempio. È quello che accade con le varianti oggi in circolazione, per le quali si stabilisce una sorta di circolo, che possiamo considerare virtuoso o vizioso a seconda che lo osserviamo dal punto di vista del virus o dell’uomo.

Più velocemente si duplica, più numerose sono le mutazioni cui va incontro, più varianti super diffusive è in grado di creare, più elevata ancora è la sua velocità di replicazione. E così via.

Quali varianti sono in circolazione

Nel caso del SARS-CoV-2, le varianti non devono preoccuparci perché più letali, ma perché più diffusive. L’aumento della contagiosità è un elemento molto rischioso per la saturazione delle terapie intensive e per la limitazione dell’accesso alle cure anche per i pazienti affetti da altre patologie.

Le varianti che in questo momento generano più preoccupazione sono quella inglese, la sudafricana e la brasiliana. Vale la pena ricordare che l’attribuzione dell’aggettivo non fa riferimento al luogo di origine della variante, ma al Paese nel quale è stata per la prima volta identificata.

Tutte e tre queste versioni mutate del virus sono più contagiose rispetto alla versione base.

I vaccini sono efficaci anche sulle varianti?

I primi studi sembrano confermare l’efficacia dei vaccini attualmente approvati contro la variante inglese.

Non sono ancora disponibili dati sull’efficacia nei confronti delle altre varianti attualmente in circolazione.

Nuovo coronavirus, o SARS-CoV-2: cos’è

Per praticità, il nuovo virus responsabile dell’epidemia di COVID-19 viene chiamato semplicemente coronavirus ma in realtà “coronavirus” è il nome che identifica, più globalmente, una vasta famiglia di virus che causano numerose malattie respiratorie, dal comune raffreddore a patologie più gravi come la Sindrome Respiratoria Mediorientale (MERS) e la Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS).

Si tratta di virus identificati a metà degli anni ’60, che hanno come bersaglio principale le cellule epiteliali del tratto respiratorio e gastrointestinale.

Il SARS-CoV-2 (Sindrome Respiratoria Acuta Grave-COronaVirus-2, precedentemente denominato 2019-nCoV) è un nuovo coronavirus (nCoV), ovvero un nuovo ceppo che non era mai stato identificato nell’uomo prima di essere segnalato a Wuhan.

Il nome deriva dal fatto che, secondo gli esperti incaricati di studiare questo nuovo ceppo, questo coronavirus è “fratello” di quello che ha provocato la SARS (SARS-CoVs).

Il salto di specie

Il SARS-CoV-2 non è, in realtà, del tutto nuovo in natura. Si tratta, infatti, di un virus già noto in campo veterinario.

Come è arrivato all’uomo?

La deforestazione ha sottratto territori agli animali e la contestuale urbanizzazione estesa ha portato molti insediamenti umani in zone a ridosso degli habitat animali. Questo ha favorito la contiguità fra uomo e animali e, nei Paesi poveri, dove le norme igieniche non vengono mediamente rispettate in maniera adeguata, il salto di specie di alcuni virus.

È stato così per le altre patologie da coronavirus. Il virus della SARS è arrivato all’uomo passando presumibilmente per un piccolo mammifero come lo zibetto, quello della MERS per il cammello o il dromedario, quello della COVID-19 per il pangolino (ma l’ospite intermedio potrebbe essere anche in questo caso lo zibetto).

Dove ha avuto origine la pandemia

Le circostanze della contiguità si sarebbero realizzate all’interno dei cosiddetti “wet market”, nei quali gli animali selvatici vengono ospitati vivi per essere macellati in loco, al momento dell’acquisto. L’aggettivo umido è legittimato dal fatto che vi scorre il sangue degli animali uccisi.

Al di là dell’impressione che questa tradizione suscita, non sono trascurabili le sue ripercussioni in termini di rischio di propagazione di malattie veterinarie.

Attualmente, l’ipotesi più accreditata per spiegare l’origine della COVID-19 vede come punto di partenza proprio il wet market di Wuhan.

Covid-19: i sintomi

La malattia da coronavirus ha una manifestazione clinica molto ampia ed articolata, che va dalla completa assenza di sintomi, alla presenza di sintomi lievi, alla dirompenza di una sintomatologia in grado di far precipitare il quadro clinico dei pazienti.

I sintomi più comuni

I sintomi più comuni sono:

Possono essere presenti anche indolenzimento e dolori muscolari, sintomi da raffreddamento come congestione nasale e naso che cola, cefalea, mal di gola o diarrea (specie nei bambini).

Il periodo di incubazione, cioè il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici, varia fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni.

In genere, i sintomi sono lievi e iniziano gradualmente, ma possono progredire e diventare più seri nell’arco di qualche giorno. Devono mettere in allarme una febbre sempre più elevata dopo i primi 5-6 giorni dall’inizio della sintomatologia, una tosse secca insistente e un respiro affannoso.

Nei casi più seri, l’infezione da Covid-19 può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, problematiche che possono rendere necessario il ricovero in ospedale, nella peggiore delle ipotesi il ricorso alla terapia intensiva, e possono anche portare alla morte.

Se vuoi approfondire i sintomi del Coronavirus, guarda la videointervista di Melarossa al dottor Luigi Temperilli, specialista in ematologia e pneumologia, che ti suggerisce anche un semplice esercizio da fare a casa per capire se hai l’affanno, una delle spie di un possibile contagio da Covid-19.

Covid-19 e perdita di gusto e olfatto

La malattia da coronavirus è anche associata a sintomi come anosmia/iposmia (perdita/diminuzione dell’olfatto) e in alcuni casi ageusia (perdita del gusto) o disgeusia (alterazione del gusto).

I dati provenienti dalla Corea del Sud, dalla Cina e dall’Italia mostrano infatti che in alcuni casi (30-60%) i pazienti con infezione confermata da SARS-CoV-2 hanno sviluppato anosmia/iposmia in assenza di altri sintomi.

Sono in corso studi per comprendere l’origine della perdita di gusto e olfatto e scoprire se possa rappresentare un potenziale segnale di allarme che permette di identificare la malattia anche quando non sono presenti altri sintomi.

L’associazione internazionale Global Consortium for Chemosensory Research ha lanciato, proprio a questo scopo, un progetto a cui partecipano anche la Sissa (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste e le istituzioni di 50 Paesi nel mondo: un questionario on line per indagare gli effetti su gusto e olfatto di malattie respiratorie come raffreddore, influenza e Covid-19.

Puoi dare il tuo contributo rispondendo in forma anonima sul sito del Consorzio.

La polmonite da SARS-CoV-2

Nella forma più grave, il SARS-CoV-2 può provocare una polmonite con caratteristiche particolari, ossia di tipo interstiziale e bilaterale.

La polmonite interstiziale è una patologia nota anche in epoca pre-COVID, che interessa diffusamente il polmone. È associata ad un certo rischio per la vita, perché causa un rigonfiamento (edema) delle pareti che separano gli alveoli polmonari fra loro (setti interalveolari).

Gli alveoli sono le piccole sacche che si riempiono d’aria e che consentono il passaggio dell’ossigeno, in essa contenuto, al sangue e quello dell’anidride carbonica, contenuta nel sangue venoso, verso le vie aeree, per l’espulsione. Se i setti che li separano sono più spessi, lo spazio a disposizione per l’aria è limitato e il paziente va incontro a difficoltà respiratorie. Può richiedere il ricovero in terapia intensiva e la ventilazione, più o meno invasiva.

Altri virus possono causare polmoniti interstiziali, ma non bilaterali e con focolai multipli come nel caso del SARS-CoV-2.

Le complicanze della polmonite

La polmonite comporta uno stato infiammatorio intenso: quando il sistema immunitario riesce a modulare l’infiammazione, questa rientra e il quadro clinico del paziente migliora.

Quando, al contrario, per ragioni in parte ignote, l’infiammazione si amplifica, aumenta anche la produzione di liquido che si raccoglie negli alveoli e che rende difficile o impossibile la respirazione. Si tratta della Sindrome da Distress Respiratorio Acuto (ARDS), una delle possibili complicanze della polmonite da SARS-CoV-2.

Solo l’intubazione del paziente, insieme a tutte le altre cure prestate nei dipartimenti di terapia intensiva, può offrire al paziente una possibilità di sopravvivenza. In ogni caso, la mortalità correlata all’ARDS è molto elevata.

La tempesta citochinica

Questa espressione, diventata di pubblica conoscenza grazie alla narrazione del caso 1 italiano di COVID-19, racconta della dirompenza degli eventi che è chiamata a definire.

Ne abbiamo sentito parlare diffusamente quando è stato reso pubblico il caso del primo paziente diagnosticato nel nostro Paese, a Codogno.

Giovane, in ottima salute generale, sportivo, Mattia non è il classico soggetto intuitivamente associabile a complicanze gravi. Invece, nel suo caso, sono intervenuti fattori che hanno determinato un’evoluzione turbolenta della malattia.

L’infiammazione ha il ruolo di combattere le infezioni: fisiologicamente non è certo programmata per peggiorare le condizioni della persona colpita. Quando però la risposta immunitaria è esagerata, può produrre molti danni: la quantità di sostanze infiammatorie sintetizzata dall’organismo (le citochine, in particolare) può essere così imponente da dare il via ad una serie di eventi catastrofici (una tempesta, appunto) che porta alla distruzione dei tessuti.

Una delle conseguenze della tempesta citochinica è proprio la ARDS.

Gli effetti sulla coagulazione del sangue

Lo stato infiammatorio generato dalla polmonite causa il rilascio di sostanze che alterano la coagulazione del sangue.

Una delle conseguenze è la formazione di coaguli all’interno dei vasi, che può portare alla Sindrome da Distress Respiratorio Acuto e alla cosiddetta coagulazione intravasale disseminata (CID). I microtrombi occludono i vasi sanguigni, lasciando senza nutrimento i tessuti a valle.

Questo provoca ischemie potenzialmente gravi nei distretti colpiti.

Come si diagnostica la COVID-19

L’infezione da SARS-CoV-2 può essere diagnosticata mediante sistemi tradizionali di tipo molecolare (il gold standard è il tampone naso-faringeo) oppure rapidi, i cosiddetti test antigenici.

Il tampone naso-faringeo

Il tampone naso-faringeo è il sistema diagnostico utilizzato per rilevare la presenza del virus.

Per realizzarlo, viene impiegato uno strumento simile ad un cotton-fiock, che viene strofinato sulla mucosa della gola e, successivamente, del naso. Nelle secrezioni respiratorie rimaste adese al tampone viene ricercata la presenza dell’antigene virale, ossia di particelle del virus.

Questa ricerca si basa sulla metodica PCR (Polimerase Chain Reaction), che permette l’amplificazione del genoma del virus (DNA o RNA, come nel caso del SARS-CoV-2). Poiché questi test riconoscono il genoma virale, vengono definiti molecolari.

Pur essendo un esame altamente affidabile e specifico, il tampone naso-faringeo non può diagnosticare l’infezione se il contatto a rischio è avvenuto da poco. Durante i primi giorni, infatti, la carica virale presente nelle cellule dell’apparato respiratorio può essere tanto bassa da non consentire agli strumenti diagnostici la rilevazione.

In caso di dubbio, meglio aspettare qualche giorno dal contatto a rischio prima di sottoporsi al tampone.

In alternativa al tampone, il virus può essere ricercato in un campione di saliva, con una metodica più semplice e meno invasiva il cui risultato deve tuttavia essere sempre validato dall’esame convenzionale.

I test antigenici rapidi

Negli ultimi mesi sono stati sviluppati test rapidi per la diagnosi della COVID-19, che comportano costi inferiori e possono essere effettuati anche da personale non specializzato. Questo aspetto li rende praticabili in contesti nei quali è necessario sottoporre a screening ampi gruppi di persone, come gli aeroporti.

Come i tamponi convenzionali, i test rapidi valutano direttamente la presenza del virus nel campione: sono, cioè, test diretti. Ma, a differenza di quelli, ne riconoscono le strutture proteiche, ossia gli antigeni (ecco perché vengono definiti antigenici).

L’eventuale positività al test antigenico rapido deve essere successivamente confermata da un tampone.

Il test antigenico rapido viene realizzato su campioni di secrezione respiratoria prelevata con uno strumento identico al tampone (e in questo caso l’esame è il tampone rapido) oppure su campioni di saliva (test antigenico salivare). La risposta può essere ottenuta in 15 minuti circa.

Cosa sono i test sierologici

I test sierologici permettono di verificare l’eventuale presenza di anticorpi anti COVID-19: sono, in altre parole, test indiretti, perché non riconoscono il virus ma l’effetto da esso prodotto, la sintesi di anticorpi.

Le principali categorie di anticorpi (anche detti immunoglobuline) prodotti in seguito ad un’infezione sono le Immunoglobuline di tipo M (indicate con la sigla IgM) e le Immunoglobuline di tipo G (IgG).

Le IgM vengono sintetizzate dal sistema immunitario precocemente, a breve distanza dal contagio: la loro presenza è quindi suggestiva di un’infezione recente.

Le IgG, invece, vengono fabbricate a distanza di qualche settimana. Dunque, la positività a queste immunoglobuline indica un’infezione pregressa.

I test sierologici possono essere effettuati su un campione di sangue prelevato da vena oppure con un sistema pungidito simile a quello che viene usato per monitorare i livelli di glicemia delle persone con diabete.

Mentre fino a poche settimane fa l’acquisto di test diagnostici per COVID-19 era riservato al personale sanitario, di recente è stata approvata la vendita libera presso le farmacie di test sierologici pungidito da usare in autonomia a domicilio.

Come leggere i test sierologici

Indipendentemente dal tipo di test, è possibile risalire grossolanamente alla tempistica dell’infezione e sapere se nel proprio organismo sono stati prodotti anticorpi a seguito del contatto con il virus.

Ma non è possibile sapere se gli anticorpi eventualmente presenti sono neutralizzanti, cioè se sono in grado di garantire l’immunità (sono, in altre parole, protettivi nei confronti di una nuova infezione).

Inoltre, la negatività all’esame sierologico non equivale alla negatività all’infezione. Se, infatti, il contagio è recente il sistema immunitario non ha ancora avuto il tempo necessario per produrre anticorpi.

La positività alle IgG non esclude, infine, che l’infezione sia ancora in atto. Per quanto poco probabile, la carica virale potrebbe essere ancora significativa.

Ricordiamo anche che la positività ad un solo tipo di immunoglobuline o a entrambe deve essere comunicata al proprio medico, che consiglierà su come procedere.

Quali sono le terapie disponibili per la COVID-19

Non esistono terapie risolutive approvate, ma sono disponibili numerosi farmaci che possono essere utilizzati, a seconda dello stadio della malattia, per controllarne i sintomi e prevenire le evoluzioni rischiose per la vita del paziente.

Modulare la risposta infiammatoria

Molti dei medicinali impiegati per prevenire la tempesta citochinica venivano già usati per contrastare le conseguenze delle infezioni virali gravi.

È il caso dell’eparina, che viene somministrata alle persone colpite dalle forme severe della malattia che sono a rischio per alterazioni della coagulazione.

Per scongiurare il rischio di un’evoluzione incontrollabile della risposta infiammatoria, si impiegano anche altri farmaci.

Fra questi un antibiotico, l’azitromicina, che ha anche un’attività di modulazione del sistema immunitario. Tuttavia, a causa della possibilità di reazioni avverse cardiache, il suo uso viene limitato ai casi nei quali a quella virale si sovrappone un’infezione batterica.

I cortisonici (il desametasone, in particolare) sono, da molti punti di vista, i composti che hanno fornito i risultati migliori in termini di riduzione della mortalità.

Gli antivirali

Alcuni dei farmaci a suo tempo sviluppati contro HIV hanno mostrato una potenziale attività anche contro il SARS-CoV-2. Ma, per la debolezza dei dati prodotti e la loro ridotta quantità, vengono somministrati solo ai pazienti che rientrano negli studi clinici approvati da AIFA.

Per quanto riguarda la terapia con il remdesivir, un farmaco sviluppato contro Ebola, attualmente questa viene istituita solo nei soggetti con polmonite sottoposti ad ossigenoterapia ma non a ventilazione invasiva, nei quali i sintomi sono comparsi da meno di 10 giorni.

E l’idrossiclorochina?

Si è tanto parlato dell’idrossiclorochina e dei suoi potenziali effetti sull’infezione da SARS-CoV-2.

Ma gli studi clinici istituiti per valutarne i profili di efficacia e sicurezza non hanno, a fronte del rischio di eventi avversi gravi soprattutto a carico del cuore, evidenziato dati sufficienti perché l’Agenzia del Farmaco ne approvasse o raccomandasse l’uso.

Questo vale sia per i pazienti ospedalizzati che per quelli trattati in regime domiciliare.

Gli anticorpi monoclonali

Attualmente la nostra Agenzia del Farmaco ha autorizzato una sperimentazione di un particolare cocktail di anticorpi monoclonali, allo scopo di valutarne efficacia e sicurezza dal punto di vista della riduzione del tasso di ospedalizzazione e di mortalità per COVID-19.

Gli anticorpi monoclonali sono proteine prodotte in laboratorio che funzionano esattamente come gli anticorpi sintetizzati dal sistema immunitario: si legano all’antigene (una molecola appartenente al patogeno) neutralizzandolo.

Nel caso di questa tipologia, gli anticorpi sono diretti contro la proteina Spike presente sul capside virale. Questa molecola viene presa di mira da molti anticorpi monoclonali sviluppati, per il suo ruolo strategico nel garantire al virus la possibilità di infettare le cellule del polmone.

Quali vaccini sono disponibili?

La campagna vaccinale in Italia ha avuto inizio a fine dicembre 2020 e sta procedendo secondo fasce di popolazione. I primi ad essere vaccinati sono stati gli operatori sanitari: in prima linea contro la pandemia, non incorrono solo in rischi personali, ma sono potenziali agenti di contagio per persone già indebolite da malattie.

La seconda categoria è quella degli anziani delle RSA, che già ha patito un insopportabile numero di morti.

Poi, gli over 80, per proseguire via via verso le coorti meno fragili.

Qual è il vaccino migliore?

Attualmente, sono tre i vaccini approvati in Europa, tutti e tre efficaci, tutti e tre sicuri.

Il vaccino Pfizer

È un vaccino a mRNA, approvato per le persone dai 16 anni in su.

Il vacccino a mRna può rimescolarsi con il patrimonio genetico dei soggetti a cui viene inoculato? Questo è un timore diffuso, ma completamente infondato. L’mRNA è uno strumento per veicolare efficacemente le istruzioni per la fabbricazione degli anticorpi all’interno della cellula: “m” sta per “messaggero”.

Il vaccino Pfizer stimola la produzione di anticorpi diretti contro la proteina Spike, che permette al virus di infettare le cellule del polmone.

È somministrato in due dosi, distanti circa due settimane fra loro, tramite un’iniezione nel muscolo deltoide della spalla.

Questo vaccino ha mostrato dati di efficacia sbalorditivi, che toccano il 96%.

Il vaccino Moderna

Anche questo è un vaccino a mRNA destinato alle persone di età uguale o superiore ai 18 anni, somministrato in due dosi, distanti circa 28 giorni l’una dall’altra.

Stimola la sintesi di anticorpi diretti contro la proteina Spike del virus, l’arma micidiale che gli consente di infettare le cellule dei polmoni.

Ha efficacia pari a circa 94%.

Il vaccino AstraZeneca

Questo vaccino sfrutta un virus inattivato (quindi sicuro, non in grado di causare malattia) per veicolare le istruzioni necessarie alle cellule del sistema immunitario per fabbricare gli anticorpi. L’informazione viene trasportata da un vettore adenovirale (di adenovirus di scimpanzè) modificato.

Viene somministrato in due dosi, iniettate nel muscolo deltoide della parte superiore del braccio.

Gli ultimi dati mostrano che l’intervallo fra i due inoculi può estendersi fino a 90 giorni. L’efficacia è massima (intorno all’82%) quando la seconda somministrazione avviene nel corso della dodicesima settimana.

Il vaccino Johnson&Johnson

Il vaccino Johnson&Johnson, in realtà prodotto dalla consociata Janssen, è il più recente approvato in Europa con l’indicazione limitata agli individui di età uguale o superiore ai 18 anni.

Il maggior vantaggio che prospetta è quello di un’accelerazione della campagna vaccinale. Rispetto agli altri tre, infatti, richiede la somministrazione di una sola dose.

Come quello sviluppato da AstraZeneca, si basa sull’utilizzo di un adenovirus inattivato per veicolare all’interno delle cellule del sistema immunitario le istruzioni finalizzate alla produzione di anticorpi. Si tratta, cioè, di un vaccino a vettore virale.

Nelle forme gravi, la sua efficacia arriva fino al 77% (dopo 14 giorni dalla somministrazione) e all’85% (dopo 28 giorni dalla somministrazione).

Le categorie più a rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19

Alcune categorie più fragili sono più a rischio di sviluppare forme gravi di malattia. Tra queste:

A queste persone è raccomandato di non uscire di casa tranne in casi di stretta necessità e di evitare luoghi affollati, nei quali non sia possibile mantenere la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro.

Cosa fare se hai sintomi sospetti

Se hai sintomi come infezione respiratoria con febbre superiore ai 37.5° o sospetti di essere entrato in contatto con una persona affetta da Covid-19resta a casa, non recarti al pronto soccorso o presso gli studi medici (potresti contagiare altre persone) ma chiama il telefono il tuo medico di famiglia, il tuo pediatra o la guardia medica, che sapranno indicarti quali misure adottare.

Oppure chiama il numero verde che ogni Regione ha attivato per rispondere alle richieste di informazione e assistenza. Puoi trovare i numeri verdi regionali per l’emergenza Coronavirus sul sito del Ministero della Salute.

Utilizza i numeri di emergenza 112/118 solo in caso di peggioramento dei sintomi o difficoltà respiratorie.

Per qualsiasi domanda, è attivo 24 ore su 24, tutti i giorni, anche il numero di pubblica utilità 1500.

Fonti

  1. La coagulopatia nel COVID-19: le basi patofisiologiche – Giornale italiano di cardiologia
  2. Vaccini a vettore virale – AIFA
  3. Vaccini a mRNA – AIFA
  4. Nuovo coronavirus: il vademecum – Ministero della Salute

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