Sommario
La malattia di Alzheimer è un tipo di demenza che determina la perdita progressiva delle funzioni cognitive. È caratterizzata dalla degenerazione del tessuto cerebrale, dall’accumulo di una proteina anomala chiamata beta-amiloide e dallo sviluppo di grovigli neurofibrillari.
Quindi, il declino è lento e graduale e coinvolge facoltà come memoria, pensiero, giudizio e capacità di apprendimento.
L’Alzheimer colpisce più le donne che gli uomini, in parte perché le donne vivono più a lungo. Inoltre, si prevede che il numero di persone affette da Alzheimer aumenti in modo considerevole, man mano che aumenta la percentuale di persone anziane rispetto alla popolazione globale.
Uno dei segni precoci della malattia è la perdita dei ricordi. Difatti, si dimenticano eventi recenti, si evidenzia gradualmente uno stato confusionale, l’alterazione delle altre funzioni mentali, disturbi del linguaggio e difficoltà a svolgere le normali attività quotidiane.
Tuttavia, non esiste al momento una cura. Il trattamento implica per lo più strategie per prolungare le capacità funzionali e può includere l’uso di farmaci per rallentare la progressione della malattia.
L’Alzheimer inoltre può essere ereditario.
Infine, è difficile prevedere esattamente l’aspettativa di vita, ma il decesso avviene in media circa 7 anni dopo la diagnosi.
Morbo di Alzheimer: che cos’è?
Con il termine “demenza” (o disturbo neurocognitivo maggiore) si definisce una sindrome acquisita, caratterizzata da un evidente e significativo declino cognitivo. Questo declino può essere associato o meno a manifestazioni neuropsichiatriche, la cui gravità è tale da interferire con l’abituale svolgimento della vita quotidiana e con l’indipendenza del soggetto affetto.
Infatti, studi recenti hanno mostrato come le demenze siano la conseguenza di un lento e progressivo accumulo di danni neuropatologici, che inizia durante la vita adulta per poi manifestarsi pienamente con l’invecchiamento. Parallelamente, le manifestazioni cliniche di tali patologie si evolvono gradualmente nel corso del tempo, configurandosi inizialmente con sfumati sintomi cognitivi, fino all’insorgenza di una demenza conclamata.
Ma la malattia di Alzheimer rappresenta la prima causa di demenza (circa il 60% di tutti i casi).
Macroscopicamente, il cervello di un individuo affetto da Alzheimer presenta un grado variabile di atrofia in base alla fase clinica. Quindi, l’atrofia interessa prevalentemente la corteccia cerebrale ed è più marcata nelle regioni anteriori e mesiali dei lobi temporali (in particolare l’ippocampo) e parietali. Inoltre, i solchi cerebrali e i ventricoli appaiono ingranditi per la perdita di sostanza (dilatazione ex vacuo). Infine, il peso e le dimensioni dell’organo risultano gravemente ridotte.
Invece, microscopicamente, l’encefalo presenta depositi extracellulari ed inclusioni intracellulari definite rispettivamente placche senili e grovigli neurofibrillari.
Alzheimer: percentuale di età
Si manifesta raramente prima dei 65 anni, diventando più frequente con l’avanzare dell’età, con le seguenti percentuali di incidenza. Età compresa tra:
- 65 e 74 anni: 3%
- 75 e 84 anni: 17%
- pari o superiore a 85 anni: 32%.
Morbo di Alzheimer: sintomi
Come si manifesta la malattia di Alzheimer? La storia clinica abbraccia un lungo arco temporale. Il progressivo accumulo del danno e la conseguente incapacità dell’encefalo di compensare avvengono in maniera lenta e progressiva.
Quindi, esiste un lungo periodo, compreso tra i 15 e i 30 anni, in cui la patologia è presente, senza però alcuna evidenza di deficit cognitivo. Ciò vuol dire che l’esordio dei sintomi accade tardivamente nel corso della malattia, preceduto da una lunga fase asintomatica.
Fasi della malattia
In linea generale, le fasi della malattia sono tre:
- Alzheimer preclinico. Corrisponde alla fase asintomatica della malattia, in cui tutti i meccanismi patogenetici sono in atto, ma l’entità del danno non è tale da determinare lo sviluppo dei sintomi. Questa fase sfugge completamente alla diagnosi nella pratica clinica. Invece, è riconoscibile nei soggetti ancora asintomatici ma portatori di mutazioni genetiche responsabili dell’insorgenza della malattia, mediante apposite indagini cliniche.
- Alzheimer prodromico. Corrisponde alla fase sintomatica iniziale della malattia. La patologia raggiunge un livello di danno che compromette alcune funzioni cognitive in modo lieve e senza interferire nel funzionamento globale dell’individuo.
- Demenza. Corrisponde alla fase conclamata della malattia. Il livello di alterazione neuropatologica è così grave da compromettere molte funzioni cognitive.
Sintomi iniziali
Nello stato iniziale della malattia, i sintomi più evidenti possono essere:
- Smemoratezza per gli eventi recenti, perché è difficile formare un nuovo ricordo.
- Cambiamenti della personalità (le persone possono diventare emotivamente meno reattive, depresse o insolitamente timorose o ansiose).
- Cambiamento nel linguaggio (si usano parole più semplici o più parole rispetto a una specifica).
- Insonnia e difficoltà nell’addormentamento.
Sintomi avanzati della malattia
- Difficoltà a ricordare eventi passati (si dimenticano i nomi di amici e familiari).
- Perdita dell’autonomia (può essere necessaria assistenza per mangiare, vestirsi, lavarsi o andare in bagno).
- Perdita dell’orientamento spazio-temporale (le persone affette possono perfino perdersi in casa).
- Aumento dello stato confusionale (che implica il rischio di vagabondaggio – perché la persona non ritrova più la strada di casa e si perde – e di cadute).
- Comportamenti distruttivi o inadatti, agitazione, irritabilità, ostilità e aggressione fisica.
- Perdita totale dell’autonomia (non si è più in grado di camminare o di prendersi cura di se stessi; si può andare incontro a incontinenza, difficoltà di deglutizione, perdita del linguaggio).
I sintomi che si manifestano nel corso della malattia possono essere distinti in sintomi cognitivi e sintomi comportamentali e psicologici.
Sintomi Cognitivi
- Perdita di memoria. La funzione più frequentemente alterata nell’Alzheimer è la memoria. Il deficit della memoria per gli eventi recenti è la caratteristica clinica preminente della malattia. Quindi, dimenticare il luogo in cui sono riposti gli oggetti o ripetere spesso le stesse domande, sono sintomi iniziali tipici. Invece, la memoria autobiografica e quella relativa ai fatti storici, non recenti e a lungo termine, risulta inalterata.
- Disorientamento (spaziale e temporale). Si manifesta costantemente nel corso della malattia. All’inizio, la difficoltà è limitata alle date, ma con l’aggravarsi della malattia si perde la capacità di collocare se stessi e gli eventi vissuti nel tempo e nello spazio. Quindi, per questo motivo sono frequenti smarrimenti fuori di casa e, nei casi più gravi, perfino nella propria abitazione.
- Deficit della concentrazione e dell’attenzione. Sono tra i sintomi più precoci che comportano difficoltà di apprendimento. Il soggetto non riesce più ad acquisire e a trattenere nuove informazioni.
- Linguaggio. La compromissione del linguaggio è piuttosto frequente. All’inizio la funzione linguistica è preservata, ma un impoverimento del vocabolario si può riscontrare già nei primi colloqui clinici (si ha difficoltà nel trovare i vocaboli o i sinonimi). Successivamente, una sindrome afasica più complessa, con deficit della denominazione, della ripetizione e della comprensione si presenta in genere tardivamente.
- Disturbi gnosici (difficoltà nella percezione degli oggetti, persone, ecc.), prassici e visuospaziali.
Inoltre, la difficoltà nel riconoscere le coordinate spaziali corporee ed extracorporee può compromettere la deambulazione, con un più elevato rischio di caduta.
Sintomi Comportamentali e Psicologici
Questi sintomi “non cognitivi” spesso condizionano profondamente il decorso della malattia, con un impatto importante sulla qualità della vita della persona affetta e dei familiari e/o caregivers.
Infatti, oltre il 70% dei pazienti, con diverse modalità e frequenza a seconda delle varie fasi della malattia, sviluppa:
- Depressione.
- Ansia.
- Apatia.
- Deliri e allucinazioni.
- Agitazione e aggressività (verbale e/o fisica).
- Irritabilità.
- Comportamenti sociali inappropriati.
- Attività motoria alterata.
- Disinibizione ed euforia.
- Disturbi del sonno, della condotta alimentare e sessuale.
Anche se le fluttuazioni dei sintomi non caratterizzano la malattia, non di rado il soggetto va incontro a un peggioramento “circadiano” che si verifica nel tardo pomeriggio e nelle ore serali.
Quindi, tale fenomeno è definito “sindrome del tramonto” poiché è caratterizzato da un peggioramento dei disturbi cognitivi e comportamentali (stato confusionale, ansia, irrequietezza, agitazione psicomotoria) man mano che si avvicinano le ore serali.
La sindrome del tramonto si riscontra nel 65% dei malati.
Sintomi finali
Nelle fasi avanzate di malattia il deterioramento cognitivo è così grave che il paziente non è più in grado di svolgere da solo anche le attività basilari della vita quotidiana, come vestirsi, lavarsi e provvedere alle proprie necessità fisiologiche.
Inoltre, la comparsa di incontinenza, per la perdita del controllo volontario degli sfinteri, compromette ulteriormente la situazione. Nel tempo anche la memoria a lungo termine e il linguaggio sono compromessi, così come la capacità di comprensione. Infine, nella fase terminale possono manifestarsi anche deficit motori e turbe del tono muscolare. Ma può anche manifestarsi disfagia, disidratazione e polmoniti ab ingestis.
Inoltre, la difficoltà nella deambulazione può complicarsi con cadute e conseguenti fratture. Perciò, l’allettamento che ne consegue può incrementare il rischio di infezioni (urinarie e delle vie respiratorie) e peggiorare la stipsi, fino al possibile blocco intestinale.
Le alterazioni del pensiero astratto, che in alcuni casi sono presenti già all’esordio dei sintomi, con l’avanzare della malattia compromettono la capacità di pianificazione, critica e di giudizio. Ciò pone importanti questioni medico-legali perché risultano compromesse le capacità decisionali dell’individuo.
Alzheimer: cause e fattori di rischio
Quali sono le cause dell’Alzheimer? Purtroppo non sono ancora note. Infatti, il 90% di tutti i casi sono sporadici, cioè si manifestano senza ereditarietà tra le generazioni di una famiglia. Invece, nel 10% dei casi, la malattia si presenta in forma familiare, con la presenza di almeno due soggetti affetti tra i parenti di primo grado.
Ma il fattore genetico sembra svolgere un ruolo importante. Quindi, un genitore affetto da Alzheimer ha il 50% delle probabilità di trasmettere il gene anomalo a ogni figlio. Inoltre, circa la metà di questi figli sviluppa generalmente la malattia di Alzheimer prima dei 65 anni.
Degenerazione del cervello
Nella malattia di Alzheimer, si assiste alla degenerazione progressiva di alcune parti del cervello, alla perdita di cellule nervose e alla riduzione della reattività nei confronti dei messaggeri chimici che trasmettono i segnali tra le cellule (neurotrasmettitori).
Anche il livello di acetilcolina, un neurotrasmettitore coinvolto nelle funzioni cognitive come memoria e apprendimento, si presenta piuttosto basso.
Inoltre l’Alzheimer provoca le seguenti anomalie nel tessuto cerebrale:
- Depositi di beta-amiloide: accumulo di beta-amiloide (una proteina anomala e insolubile) poiché le cellule non riescono più a metabolizzarla e a rimuoverla.
- Placche senili o neuritiche: addensamenti di cellule nervose morte intorno a un nucleo di beta-amiloide.
- Grovigli neurofibrillari: filamenti arrotolati di proteine insolubili nella cellula nervosa.
- Alti livelli di tau: una proteina anomala che compone i grovigli neurofibrillari e beta-amiloidi.
Quindi, queste anomalie si presentano con l’avanzare dell’età, entro certi livelli, in tutte le persone, ma sono molto più frequenti in quelle affette dalla malattia di Alzheimer. Però, attualmente ancora non è noto se tali anomalie determinano direttamente la malattia di Alzheimer o se sono secondarie ad altre patologie che causano sia la demenza, sia le anomalie nel tessuto cerebrale.
Fattori di rischio
Tra i fattori di rischio, a parte l’avanzamento dell’età e la componente genetica, ci sono anche aspetti legati allo stile di vita. Quindi, sono fattori in gran parte modificabili come:
- Fumo.
- Assunzione di alcol.
- Carenza di vitamine.
- Scarsa attività fisica.
- Ridotte attività mentali e sociali.
Inoltre, il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, l’obesità e la dislipidemia sono altri fattori di rischio associati all’Alzheimer, così come alcuni traumi cerebrali, patologie cerebrovascolari e vasculopatie. Anche una bassa scolarità, la depressione e una dieta sbilanciata sono aspetti associati a un maggior rischio di contrarre la malattia.
Ma alcuni studi ancora in corso stanno anche indagando l’incidenza dell’inquinamento o l’esposizione ad alcune sostanze tossiche come possibili fattori di rischio.
Fattori di protezione
Invece, i fattori di protezione rappresentano l’altra faccia della medaglia. A parte l’assenza di familiarità per la malattia, ci sono aspetti che ci possono in qualche modo tutelare:
- Alta scolarità.
- Stile alimentare sano.
- Allenamento del fisico e del cervello.
- Buone relazioni sociali.
- Monitorare e trattare con attenzione eventuali problematiche cardiovascolari.
In molte Regioni e comuni italiani stanno nascendo i Caffè Alzheimer. L’idea di fondo è che l’Alzheimer non si combatte solo con i farmaci, ma anche con un caffè, insieme ai propri familiari, fuori dalle mura domestiche.
Queste iniziative propongono attività ludiche e di socializzazione, importanti per il mantenimento delle facoltà cognitive dei malati di Alzheimer, e forniscono un supporto informativo e di orientamento per le famiglie. Inoltre, con il sostegno di psicologi, si aiutano familiari e caregivers a comprendere l’evoluzione della malattia e ad affrontare al meglio la quotidianità
Alzheimer: diagnosi e prognosi
La diagnosi clinica si basa prevalentemente sul riscontro di un deficit cognitivo che riguarda la memoria e almeno un’altra funzione.
Il deficit deve avere quattro caratteristiche:
Quindi, la presenza di questi criteri consente di effettuare una diagnosi, ma se manca solo una di queste 4 caratteristiche si parla Alzheimer possibile. Ad esempio, è questo il caso in cui i deficit cognitivi mostrino un andamento atipico o si presentino nell’ambito di un quadro di deterioramento per la presenza di malattie cerebrovascolari o in concomitanza di sintomi tipici di altre sindromi neurologiche come il Parkinson e la malattia del motoneurone, ecc.
Quindi, alcuni sintomi possono aiutare a distinguere la malattia di Alzheimer da altre demenze. Ad esempio, le allucinazioni visive sono più comuni nella demenza da corpi di Lewy rispetto all’Alzheimer.
Analisi del liquido cerebrospinale
L’analisi del liquido cerebrospinale, ottenuta mediante una puntura lombare, e la tomografia ad emissione di positroni (PET) possono aiutare a diagnosticare la malattia.
Tuttavia, una diagnosi esatta può essere confermata solo con il prelievo di un campione di tessuto cerebrale (dopo il decesso, durante un’autopsia) esaminato al microscopio.
In vita, la diagnosi si basa sulla raccolta accurata delle informazioni anamnestiche, sull’esame neurologico e fisico generale, sulle neuroimmagini (TC e/o RMN dell’encefalo) e sulla valutazione delle funzioni cognitive.
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio di routine, il dosaggio degli ormoni tiroidei, della vitamina B12 e dell’acido folico, completano l’iter diagnostico. La raccolta dell’anamnesi deve indagare accuratamente l’esordio dei sintomi, la modalità di progressione e l’impatto sui livelli di autonomia del soggetto.
Valutazione delle funzioni cognitive
La valutazione delle funzioni cognitive rappresenta il momento centrale della fase diagnostica. Quindi, la somministrazione di test da parte di neuropsicologi presso strutture specializzate, come i Centri per i Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD), permette di ottenere un profilo neuropsicologico accurato e di descrivere, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, i deficit presenti.
Infine, l’impiego di neuroimmagini standard (TC e/o RMN) consente di escludere altre cause del deterioramento cognitivo, come ad esempio le lesioni vascolari.
Quanto tempo si può vivere con l’Alzheimer? È difficile dare una risposta esatta. Generalmente la malattia può durare dai sette ai vent’anni, con un tempo medio di 10 anni, molto dipende dall’età di diagnosi. Tuttavia, alcuni farmaci possono rallentare la malattia per un breve periodo, ma non ne impediscono la progressione.
Alzheimer: decorso
L’Alzheimer è definita la “malattia delle quattro A” poiché implica:
- Amnesia: perdita significativa di memoria.
- Afasia: incapacità di formulare e comprendere i messaggi verbali.
- Agnosia: incapacità di identificare correttamente gli stimoli, riconoscere persone, cose e luoghi.
- Aprassia: incapacità di compiere correttamente alcuni movimenti volontari complessi, ad esempio vestirsi.
Tuttavia, anche se il decorso della malattia è unico per ogni individuo, si può suddividere generalmente in tre fasi.
- Fase iniziale: sono prevalenti i disturbi della memoria, ma possono essere presenti anche disturbi del linguaggio. Perciò, la persona è ripetitiva nell’esprimersi, tende a perdere gli oggetti, tende a smarrirsi e non ritrovare la strada di casa. Inoltre, può manifestare alterazione emotiva, irritabilità, reazioni imprevedibili.
- Fase intermedia, si assiste a una progressiva perdita dell’autonomia ed è necessaria un’assistenza continua.
- Fase severa, invece, è caratterizzata dalla completa perdita dell’autonomia: smette di mangiare, non riesce più a comunicare, diventa incontinente, è costretto a letto o su una sedia a rotelle.
Tuttavia, la durata di ogni fase varia da persona a persona e in molti casi una fase può sovrapporsi all’altra.
Alzheimer: cura e terapie
Come si cura l’Alzheimer? Ad oggi non sono disponibili terapie farmacologiche efficaci e la malattia resta una patologia incurabile.
Terapie farmacologiche
I trattamenti prevedono l’uso di farmaci cosiddetti “sintomatici” che alleviano alcuni sintomi senza intervenire, però, sui meccanismi patogenetici.
Gli inibitori dell’AcetilColinEsterasi (AChEI) agiscono incrementando i livelli di acetilcolina nel cervello. L’acetilcolina è un neurotrasmettitore importante per il corretto funzionamento cognitivo. Quindi, l’azione degli AChEI mira a compensare il deficit funzionale legato a questa compromissione.
Le molecole utilizzate per la terapia farmacologica, nelle fasi lieve e moderata della malattia, sono: donepezil, rivastigmina, galantamina.
Invece, la memantina è impiegata per il trattamento delle fasi moderate e severe della malattia, anche se ha dimostrato una limitata efficacia nel favorire il rallentamento della progressione dei sintomi.
Ma negli ultimi due decenni, la ricerca si è dedicata allo studio di farmaci in grado di interferire con i meccanismi patogenetici della malattia. Farmaci di questo tipo non sono sintomatici, ma mirano a cambiare il decorso della malattia.
Invece, altre ricerche puntano sulla risposta immunologica dell’organismo contro la malattia, cercando di sviluppare un vaccino in grado di contenere la produzione di beta-amiloide (il peptide che si aggrega a formare le placche).
Tuttavia, le ricerche sono ancora in corso.
Terapie non farmacologiche
La scarsa efficacia della terapia farmacologica convenzionale e la dimostrazione che la mancata e costante stimolazione cognitiva durante la vita riduce la riserva cognitiva e favorisce il deterioramento, hanno spinto i ricercatori anche verso interventi non farmacologici.
Tali interventi hanno come obiettivo:
- Aumento delle performance cognitive.
- Controllo dei sintomi comportamentali e psicologici della demenza.
- Miglioramento della qualità della vita dei pazienti.
Tuttavia, l’efficacia di questi approcci è generalmente transitoria e di modesta entità, ma se prolungati nel tempo possono apportare benefici simili a quelli della terapia farmacologica.
Stimolazione cognitiva
La stimolazione cognitiva è tra le tecniche più utilizzate. E’ un approccio dedicato principalmente alle interazioni sociali ed è generalmente attuato sotto forma di attività di gruppo.
Poi, è focalizzata sull’identificazione di obiettivi da raggiungere rispetto ai deficit cognitivi. Quindi, il metodo proposto è di tipo compensatorio, ovvero una funzione preservata va a compensare quella deficitaria. Inoltre, coinvolgendo anche i familiari, la stimolazione cognitiva mira al miglioramento del funzionamento globale dell’individuo.
Training cognitivo
Il training cognitivo prevede l’esecuzione di compiti standard ideati per le varie funzioni cognitive. Gli esercizi proposti possono prevedere l’uso di carta e penna o essere riprodotti sul computer.
La difficoltà dell’esercizio è stabilita in base al grado di compromissione della specifica funzione cognitiva e modulata in base ai miglioramenti.
Ma il principio è che l’esercizio ripetuto e la pratica possano migliorare o mantenere stabile una funzione alterata.
Alzheimer: alimentazione
Si può prevenire l’Alzheimer con la dieta? Uno studio pubblicato su Neurology ha visto coinvolte più di 1.200 persone, con più di 65 anni di età, senza alterazioni cognitive.
Dopo aver compilato un questionario dettagliato sulle loro abitudini alimentari, queste persone, un anno e mezzo dopo, sono state sottoposte a un prelievo di sangue per misurare il livello della proteina beta-amiloide (principale responsabile della formazione delle placche presenti tipicamente nel cervello di un malato di Alzheimer).
Lo studio mirava ad evidenziare l’esistenza di un legame tra questa proteina e le sostanze nutritive presenti negli alimenti, come:
- Acidi grassi saturi.
- Omega 3 e omega 6.
- Acidi grassi monoinsaturi.
- Vitamina E, C, D, B12.
- Folati e betacarotene.
Quindi, è emerso che più un individuo consuma alimenti ricchi di omega 3 (come pesce, crostacei e frutta secca), più sono bassi i tassi di proteina beta-amiloide nel sangue.
Quindi, la dieta mediterranea è particolarmente adatta al mantenimento di un cervello attivo, poiché ricca di verdura, frutta e pesce.
Alzheimer: evitare i cibi AGEs
Inoltre, è importante ridurre il consumo di carne, formaggi stagionati e, soprattutto, evitare i cibi precotti. Infatti, questi cibi contengono gli AGEs (Advanced Glication End products) che rappresentano un importante fattore di rischio per la malattia di Alzheimer.
Gli AGEs sono delle sostanze chimiche prodotte dalla combinazione degli zuccheri con altre molecole come grassi o proteine. In alcuni alimenti industriali sono aggiunti come esaltatori del sapore, ma la maggiore quantità di AGEs si forma durante la cottura degli alimenti.
La loro formazione dipende dalla temperatura e dal tipo di cottura. Quindi, maggiore è la temperatura e il tempo di cottura, maggiore sarà la formazione e l’accumulo di AGEs. Perciò, le cotture alla griglia, alla piastra o la frittura sono da sconsigliare se abituali, favorendo invece cotture in umido, al vapore o la bollitura.
Alzheimer: esercizio fisico, sport e yoga
Lo sport può ridurre il rischio di Alzheimer? Vari studi confermano che il movimento e l’attività fisica aiutano il soggetto a restare più a lungo indipendente, mantenendo e stimolando le capacità mentali e fisiche, facilitando anche il sonno notturno.
Quindi, incoraggiare la persona affetta ad avere degli interessi, a restare attivo e a fare del movimento può aiutarla a condurre una vita il più normale possibile.
Secondo alcune ricerche, l’irisina, un ormone prodotto in grandi quantità dal tessuto muscolare durante le attività fisico-sportive, giocherebbe un ruolo importante come possibile antidoto al decadimento cognitivo. Infatti, l’ormone è presente in concentrazioni inferiori nelle persone colpite da Alzheimer.
Quindi, lo sport, aumentando la produzione di irisina, può contribuire al mantenimento delle funzioni cognitive. Anche in presenza degli accumuli di beta-amiloide, la proteina che forma le tipiche placche nel cervello delle persone colpite dalla malattia.
L’importanza dell’attività intellettiva, ma soprattutto fisica, è confermata anche da uno studio pubblicato su Science. La ricerca ha evidenziato (su modello animale) come l’esercizio fisico promuova la sintesi di nuovi neuroni a livello dell’ippocampo, una delle prime regioni del cervello a mostrare i segni della malattia.
Poiché non è possibile attualmente eliminare le placche di beta-amiloide, i ricercatori stanno tentando nuove strade, tra le quali il “potenziamento” del tessuto nervoso, per garantire un turnover ai neuroni danneggiati. L’ippocampo, d’altra parte, ha una peculiarità, quella di rinnovarsi continuamente anche grazie alla presenza di cellule staminali che, se adeguatamente stimolate, possono sopperire alla perdita di altre cellule.
Respirazione yoga
Uno studio pubblicato su International Psychogeriatrics ha evidenziato i benefeci della respirazione yoga, in grado di aumentare il Fattore di Crescita Nervoso (NGF). E’ una proteina fondamentale per lo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale, che è significativamente ridotta nelle persone con Alzheimer.
Quindi, i ricercatori hanno chiesto a 20 volontari di effettuare la respirazione yoga e hanno usato i loro campioni di saliva per misurare il livello di NGF. Nello specifico, i volontari hanno partecipato a un programma di 20 minuti di respirazione yoga. Al termine dell’esperimento, il 60% dei volontari ha mostrato un marcato aumento dei livelli di NGF.
Alzheimer: prevenzione
Le demenze sono state riconosciute come una priorità per la sanità pubblica. Il progressivo invecchiamento della popolazione e la mancanza di una cura stanno, infatti, determinando un marcato aumento della prevalenza e dell’impatto socio-assistenziale di tali patologie.
Quindi, diventa fondamentale identificare e attivare strategie preventive efficaci.
Si può prevenire l’Alzheimer? A tale riguardo, gli studi epidemiologici hanno identificato un’ampia gamma di fattori di rischio per la demenza potenzialmente modificabili come: disturbi cardiovascolari, depressione e stili di vita e abitudini non salutari (ridotta attività fisica, fumo, abuso di alcool, bassa scolarizzazione, scarse relazioni sociali, ecc.).
Al contrario, attività mentalmente e fisicamente stimolanti, buone relazioni sociali, elevato livello di istruzione e di complessità professionale, regimi dietetici equilibrati (come la dieta mediterranea) sembrano essere fattori protettivi verso la demenza.
Quindi, l’incidenza della malattia potrebbe essere ridotta sensibilmente implementando strategie di sanità pubblica finalizzate a ridurre la prevalenza di questi fattori.
Alzheimer: regole di prevenzione
Sono 6 le principali regole di prevenzione:
- Essere fisicamente attivi.
- Seguire una dieta sana ed equilibrata.
- Non fumare.
- Assumere poco alcool.
- Allenare la mente.
- Controllare lo stato di salute.
Morbo di Alzheimer: giornata mondiale
In occasione della XXV Giornata Mondiale Alzheimer del 21 settembre 2022, è stato presentato il Rapporto Mondiale Alzheimer che ha evidenziato come la malattia di Alzheimer e le altre demenze rappresentano la settima causa di morte nel mondo.
In Italia, secondo stime dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), circa 1.100.000 persone soffrono di demenza (di cui il 50-60% sono malati di Alzheimer, circa 600mila persone)
L’adozione di stili di vita salutari (corretta alimentazione, svolgimento di regolare attività fisica, non fumare e non abusare di alcol) può svolgere, secondo la comunità scientifica, un ruolo nel diminuire il rischio di sviluppare diverse forme di demenza. Le linee guida OMS (2019) forniscono infatti raccomandazioni basate sull’evidenza sui comportamenti e sugli interventi nello stile di vita per ritardare o prevenire il declino cognitivo e la demenza
In Italia per la protezione sociale delle persone affette da demenza e per garantire la diagnosi precoce e la presa in carico tempestiva delle persone affette da malattia di Alzheimer, è stato istituito dalla Legge 30 dicembre 2020, n. 178 (comma 330, 331 e 332) il Fondo per l’Alzheimer e le demenze 2021-2023.
Alzheimer: cenni storici
La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer.
Infatti, durante la Conferenza psichiatrica di Tubinga, Alzheimer presentò il caso di una donna di 51 anni affetta da una forma di demenza finora sconosciuta.
Successivamente, nel 1910 lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel suo trattato “Psichiatria”, descriveva la nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto malattia di Alzheimer.
Ma nella definizione della nuova malattia, anche un ricercatore italiano, Gaetano Perusini, ebbe un ruolo rilevante. Infatti, Perusini faceva parte di un gruppo di psichiatri che privilegiava, rispetto ai trattamenti psicoanalitici, lo studio anatomico dei pazienti. Questa era anche la linea di Alois Alzheimer, che seguiva gli orientamenti della scuola prettamente anatomica di Emil Kraepelin.
Poi, nel 1906, a Monaco, Perusini affiancò Alzheimer nell’attività di ricerca per decifrare la particolare forma di demenza scoperta. Quindi, lo studio che ne scaturì fu pubblicato sulla rivista Histologische und histopathologische Arbeiten.
In questo studio, Perusini intuì l’azione di “una specie di cemento che incolla le fibrille insieme”. Di fatto, con quasi 80 anni di anticipo, comprese la presenza della proteina beta-amiloide, la sostanza di cui sono fatte le placche, come “prodotto metabolico patologico”.
In seguito, questa proteina è stata poi scoperta, grazie alla biologia molecolare, nel 1984.
Con la consulenza del Dott. Matteo Bologna, Neurologo Ricercatore c/o l’Università Sapienza di Roma, Dipartimento di Neuroscienze Umane.
Si ringrazia il Prof. Alfredo Berardelli per la gentile concessione del materiale bibliografico: La Neurologia della Sapienza, edizione 2019, Esculapio Editore.
Link esterni
- Ministero della Salute.
- Fondazione Umberto Veronesi.